“Riforme annunciate” contro “riforme realizzate”. Tornano di gran moda, in un intreccio che è ancora tutto da esplorare persino nelle intenzioni: in queste settimane sono state presentate la riforma della pubblica amministrazione, quella della dirigenza pubblica, quella dell’istruzione. Ciò che stupisce, nella circostanza, non è tanto lo iato tra l’annuncio dalle pagine dei giornali di cambiamenti immediati e l’immancabile rallentamento nella fase decisionale rispetto ai tempi inizialmente dettati dal Governo per la loro approvazione parlamentare. Meraviglia soprattutto il persistere di un’intramontabile fiducia nel valore salvifico delle cosiddette riforme, alla quale nessun Governo in carica sa sottrarsi.
Di riforma basta la parola. Poco importa che una volta emanate vadano ad infoltire una selva di norme ormai del tutto inestricabile anche da parte dei più esperti giureconsulti, con buona pace dei propositi di semplificazione normativa o di delegificazione, assunti come impegno solo per la durata della campagna elettorale. E a nessuno interessa che poi restino inattuate, perché ciò che conta è il clamore che l’iniziativa produce al momento del suo lancio e perché non c’è soggetto interessato alla verifica di impatto della nuova norma nel contesto dell’ordinamento vigente. E’ la parola di per sé che evoca l’idea del cambiamento e che viene ritenuta politicamente premiante. Se poi la scuola – con tutti i suoi problemi – non ne viene neppure sfiorata, la cosa passa inosservata. Del resto il mondo dell’istruzione – si sa – è una specie di malato cronico, al cui capezzale vengono chiamati, senza particolare speranza di successo, esperti di maggiore o minore reputazione che si esercitano nel riproporre ricette tante volte da altri suggerite.
Nella fase politica attuale si è creato così un ingorgo: ci sono tre provvedimenti legislativi “in corsa”, che – pur avendo finalizzazioni diverse – di fatto interagiscono fra loro e sulla situazione della scuola: il decreto-legge 90 (in via di conversione), il disegno di legge sulla dirigenza pubblica (di cui quella della scuola è parte integrante), il disegno di legge annunciato sulla qualità dell’istruzione, frutto quest’ultimo dell’elaborazione di due gruppi o cantieri al lavoro nelle ultime settimane. Degli ultimi due sono note, ad oggi, solo anticipazioni.
La prima questione che pare degna di nota è pertanto quella di assicurare ai provvedimenti in corso di gestazione un disegno comune e una coerenza di fondo, che non appare scontata per la loro provenienza da contesti normativi diversi. Lo si potrà meglio valutare in seguito, quando per tutti sarà avviato l’iter parlamentare. Per il momento lo si può segnalare solo come punto di attenzione.
Per quanto attiene ai contenuti, una ripartenza è d’obbligo, quella dall’autonomia scolastica, riforma per l’appunto varata alla fine degli anni novanta, subito dopo accantonata e finora mai realizzata.
La ripresa dell’autonomia passa per la riforma della governance, ormai non più rinviabile. L’attuale sistema di organi collegiali, unicamente votati alla rappresentanza di interessi particolari delle diverse componenti, va superato ponendo al centro l’autonomia della istituzione scolastica nel suo complesso. Lo strumento idoneo è quello dell’autonomia statutaria piena. La legge dovrebbe conferire alle scuole il potere di autogoverno, limitandosi a regolare l’istituzione di un organo di indirizzo e controllo, dal quale dipendesse il disegno dell’assetto interno. Sempre la legge dovrebbe descrivere solo il perimetro esterno dell’autonomia, cioè i poteri della scuola autonoma, senza entrare nel suo funzionamento interno.
Ne sono corollari indispensabili: a) la formulazione di chiari obiettivi di sistema che le scuole siano chiamate a realizzare; b) l’assegnazione di risorse (finanziarie, ma anche di organico) certe e stabili nel tempo, almeno su un arco triennale; c) la realizzazione di un sistema di controllo efficace sui risultati (in relazione agli obiettivi assegnati), con l’abbandono totale e radicale della prassi del controllo procedurale, che ha fin qui costituito la negazione di fatto di ogni spazio di autonomia reale.
La scuola – valutata nel suo insieme dal “sistema nazionale” in relazione al conseguimento degli obiettivi – dovrebbe a sua volta avere la possibilità di valutare al proprio interno le prestazioni individuali. Le due cose si tengono in modo indissolubile: non è concettualmente possibile valutare la scuola come insieme operativo, se i singoli rimangono totalmente liberi di agire senza rispondere delle proprie azioni. Ne è di fatto pensabile valutare dall’esterno e “da remoto” un milione di persone. Il sistema si dia gli strumenti per valutare le ottomila scuole e conferisca a ciascuna di esse i poteri per valutare il proprio personale.
Rispetto a quest’impianto sono necessari due ulteriori interventi.
Il primo riguarda il ruolo del dirigente della scuola. Nel disegno di legge che prima si richiamava sulla funzione dirigenziale pubblica, si distinguono due tipologie dirigenziali ben diversamente connotate, il profilo del dirigente gestionale e quello del dirigente professionale. Deve essere ben chiaro al legislatore che la dimensione operativa di gran lunga prevalente nel profilo del dirigente scolastico è quella “gestionale”, particolarmente – ma non solo – dopo le numerose innovazioni introdotte negli ultimi anni (codice appalti, anticorruzione, trasparenza, monitoraggi vari, ecc.). La dimensione “professionale”, cioè quella che riguarda gli atti direttamente connessi con il processo di istruzione e formazione, risulta di fatto largamente minoritaria: sia per la natura assorbente di tutte le altre attività / responsabilità, sia per la parallela esistenza di una larghissima autonomia dei docenti. E’ giunto il momento di uscir fuori dalle ipocrisie e dalle ambiguità. Senza una scelta congruente con le reali esigenze di conduzione degli istituti autonomi non si potranno risolvere i problemi incancreniti della nostra scuola.
La seconda, infine, è la questione degli insegnanti ovvero della loro valorizzazione attraverso l’introduzione di meccanismi di carriera, che, essendo finalizzata alla qualità del servizio e quindi all’interesse pubblico, dovrebbe essere regolata per legge e quindi formare parte dello “stato giuridico” dei docenti.
Gli altri aspetti del rapporto di lavoro, quelli che mettono in relazione unicamente interessi individuali dei dipendenti e quelli tipici del datore di lavoro (orario di lavoro, ferie, regime disciplinare, malattia e simili), dovrebbero continuare ad essere regolati per contratto. A tal proposito, pur se la materia è estranea ai disegni di legge in corso di elaborazione, non si può che auspicare la fine della moratoria contrattuale.
In ambito contrattuale potrebbe trovare spazio la questione dell’eventuale permanenza di una progressione economica “per anzianità”, distinta da quella “per valutazione” cui si è fatto cenno. Anp considera tale possibilità come subordinata e comunque residuale rispetto all’altra: ma si rimette alle decisioni che le parti negoziali a ciò abilitate vorranno assumere al riguardo. Quello che deve esser chiaro, in ogni caso, è che l’anzianità non può e non deve costituire l’unica causale della progressione economica, né la principale.
Pur se la materia è, in astratto, di natura contrattuale, sarebbe comunque necessario che il contratto di lavoro degli insegnanti fosse “tipico” e “professionale”, cioè centrato sul loro profilo specifico e separato da quello del personale ausiliario ed amministrativo delle scuole. Il modo per ottenere tale risultato può essere scelto dal decisore politico fra una varietà di opzioni: ma l’obiettivo dovrebbe essere tenuto fermo, anche al fine di ridare centralità e rinnovata dignità alla funzione docente.
Questi sono solo alcuni – ritengo i principali – temi del dibattito politico in corso sull’innovazione normativa necessaria se si vuole davvero puntare sull’istruzione come volano per la crescita economica e sociale del paese. I prossimi mesi ci diranno se il decisore politico vuole fare sul serio. Compito del legislatore è stabilire le norme, individuare gli strumenti e distribuire le risorse. A tutto il resto deve provvedere la società civile e la responsabilità professionale degli addetti ai lavori.