Mentre nel Paese infuria senza esclusione di colpi lo scontro politico, le note vicende riguardanti la fase di presentazione e di ammissione delle liste elettorali del Pdl in Lazio e in Lombardia hanno rinnovato l’interesse della scienza costituzionalistica su temi classici quali quello del rapporto tra democrazia formale e democrazia sostanziale, del ruolo di arbitro istituzionale spettante al capo dello Stato, della legittimità costituzionale di un decreto legge di interpretazione autentica.
Insigni giuristi, valenti costituzionalisti, presidenti emeriti della Corte costituzionale si sono messi all’opera per sbrogliare, con la maestria leggiadra delle loro dita affusolate ed esperte, una matassa che sembra giorno dopo giorno ingarbugliarsi sempre più. Come moderni semafori nell’ora di punta, numerosi esperti di diritto sono stati così chiamati a raccolta per esercitare la loro nobile arte e risolvere l’incidente istituzionale di Roma e Milano, liberando le strade della democrazia da ingorghi costituzionali che rischiano di provocare morti e feriti. Sullo sfondo, l’idea (romantica?) che, in opposizione ad una politica che serve perlopiù interessi parziali, il Diritto, la Legge e la Costituzione possano, in modo certo e indipendente, risolvere tutte le controversie. Ma è davvero così?
Una iniziativa recente apparsa sul sito di Astrid (Fondazione per l’Analisi, gli Studi e le ricerche sulla Riforma delle Istituzioni Democratiche e sull’innovazione nelle amministrazioni pubbliche) fornisce interessanti risposte a questa domanda.
La fondazione ha sollecitato, attraverso un serie di quesiti tecnici, il pronunciamento dei giuristi più illustri sulla legittimità costituzionale del recente decreto legge, interrogandoli sulla natura (meramente interpretativa o innovativa) delle sue norme, sulla opportunità (costituzionalità?) di intervenire sulla materia elettorale con una atto avente forza di legge, sulla legittimità delle norme statali relative la presentazione delle liste e le sue formalità che, riguardando il procedimento di elezione dei Consigli Regionali, potrebbero rientrare (o meno) nella competenza affidata alle Regioni. Le risposte a tali quesiti non sono tardate, e mostrano, anche ad una prima lettura, una sorprendente divergenza di opinioni.
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Insomma: i contributi offerti su Astrid non aiutano a sbrogliare la matassa, e l’intervento dei vigili della costituzionalità non sembra avere risolto l’ingorgo istituzionale della democrazia italiana. Ciò potrebbe suscitare un senso di disorientamento in chi fosse portato a concepire il diritto come una scienza esatta, il cui corretto esercizio conduce l’interprete da determinati presupposti a determinate (univoche) conclusioni.
In realtà, come ha osservato da tempo un grande maestro del diritto, Giovanni Bognetti, una analisi più attenta dimostra che «i giuristi pretendono di solito di “scoprire”, con le loro interpretazioni quale sia l’unico possibile corretto significato delle disposizioni normative. Ma la verità è che l’identificazione di questi significati dipende da preventive premesse maggiori non articolate (in parole povere, da preferenze di ordine etico-politico) che sempre condizionano in modo decisivo l’opera dell’interprete».
Se questa lettura è esatta, le divergenze della classe politica (che nella vulgata comune sono il sintomo di un interesse peloso ed equivoco) sembrano riproporsi, anche se ad un altro (e più alto?) livello, nel dibattito giuridico-costituzionale. Sostituire il dio della politica con il dio della legalità, insomma, non pare aver messo al riparo la società italiana dal rischio di sgradevoli particolarismi; stretta tra Scilla che invoca la tutela della sostanza e Cariddi che si appella al rispetto della forma, il fragile vascello della democrazia italiana non sembra così in grado di trovare, tra acque tumultuose, la corrente propizia che gli permetterebbe di prendere il largo e spiegare le vele.
E allora? Se nemmeno la più illuminata dottrina è in grado risolvere l’enigma, come è possibile uscire dall’empasse in cui versa il nostro Paese alla vigilia di elezioni tanto importanti? Chi ci libererà dalla forma opprimente dei cavilli o, alternativamente, dall’arroganza di un potere che non rispetta le regole del gioco? Chi, insomma, salverà la Democrazia?
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Rispondere a quest’ultima domanda non è compito semplice e richiede una riflessione seria che investa profondamente la storia, la cultura, l’educazione di ciascuno di noi. Una possibile risposta può forse essere indagata svelando un equivoco insito nel quesito stesso. Come dimostrano gli avvenimenti di questi giorni, pensare che l’umano possa salvare l’ordinamento democratico (cioè se stesso) è cosa ingenua.
Lo è per chi affida le proprie speranze alla democrazia sostanziale, attribuendo alla classe politica uno statuto provvidenziale, ma lo è anche per chi affida l’umano anelito a che si realizzi una giustizia nei rapporti umani e sociali alla applicazione rigida delle regole della democrazia formale; è ironico, del resto, constatare che mentre in Lombardia si raccoglievano le firme per salvare la sostanza della democrazia, proprio un cavillo formale (e per di più un’interpretazione procedurale) ha consentito alla lista esclusa di rientrare in corsa.
La democrazia, insomma, è una cosa complessa che appartiene a tutti noi. Non è un bene che possa essere interamente delegato ad una classe politica illuminata con le carte (e, naturalmente, con i timbri) in regola, ma neppure un meccanismo regolato da un sistema costituzionale perfetto, da un puro ordine esteriore. Punto di partenza della vera democrazia è invece l’esigenza naturale, umana, che la convivenza aiuti l’affermazione della persona e che i rapporti sociali non ostacolino la crescita della personalità di ciascuno.
Essa presuppone governanti che riconoscano “l’uomo in quanto è e perché è”, e un sistema che sia ordinato a questo scopo, accogliendo una definizione del potere che – come ricordava Romano Guardini – sia inteso come «delinazione dello scopo comune e organizzazione delle cose per il suo raggiungimento».
Ma la democrazia ha bisogno anche di governati che mantengano vivo quel desiderio originale, quella domanda di significato, che li spinge a mettersi insieme non a partire dalla provvisorietà di un tornaconto, ma secondo una interezza e una libertà sorprendenti che è segno di vitalità, responsabilità e cultura. Il compito, certo, non è semplice. Ma solo servendo questo ideale, forma e sostanza troveranno, finalmente, quella unità di intenti che è necessaria e dovuta.
(di Rosencrantz & Guildenstern)