Con il giro di boa della terza prova si comincia a intravedere la fine dell’esame di stato, un rito nazionale che impegna ogni hanno migliaia di persone e tiene sulle spine studenti e famiglie. Alcuni numeri: dal 1923, anno in cui venne introdotto da Giovanni Gentile, i promossi (maturità scientifica) sono passati dal 55% al circa 99% degli ultimi anni, i candidati iscritti all’esame sono quest’anno 489.962, il tasso di studenti ammessi alla maturità al termine degli scrutini finali (dopo i mutamenti introdotti da Fioroni) è del 95,6%. Nel 2012 gli studenti bocciati all’esame di maturità sono stati l’1,3%, 0,9% nel 2013, 0,8% nel 2014. Costo: 150 milioni di euro. Tutto a posto dunque?Ne abbiamo parlato con Ezio Delfino, presidente di Disal (Dirigenti scuole autonome e libere).
Delfino, la domanda è d’obbligo: l’esame di stato ha ancora senso?
Un esame è non solo accertamento di conoscenze e abilità, ma anche l’occasione per il candidato di mostrare aspetti di sé — saperi, competenze, consapevolezze — che possano essere ponderati per valutare quanto essi siano realmente appresi e perciò divenuti criteri e strumenti della propria persona per affrontare le scelte successive. Affrontare e superare un esame al termine di un ciclo di studi rafforza lo sviluppo della personalità e, per questo, rappresenta un passaggio necessario ed utile nel percorso formativo di un giovane.
Quindi?
Mi chiedo: la forma attuale dell’esame di stato della scuola secondaria superiore permette di mettersi effettivamente alla prova? o non costituisce, invece, un doppione accelerato delle prove dell’anno, rinviando la verifica delle competenze raggiunte ad altri appuntamenti, universitari o lavorativi? In un test sottoposto qualche anno fa a cento ragazzi dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, istituto d’eccellenza, soltanto il 27 per cento degli intervistati lo riteneva un’occasione per essere valutati in maniera completa.
Le diranno di essere contrario alla valutazione… cosa risponde?
Non è certo l’idea di far svolgere delle prove di esame da criticare: è questo tipo esame di maturità, che pur tanti ragazzi e ragazze vivono come prova di personalità, molti dei quali con convinzione ed impegno, che è ormai superato, perché le prove e le modalità che lo compongono tornano a ri-verificare, al massimo, quello che è già stato valutato durante l’anno.
L’attuale meccanismo di valutazione degli studenti (risalente alla riforma Berlinguer, 1999-2000, ndr) è di stampo concorsuale, oltre che essere complicatissimo… secondo lei garantisce l’agognata oggettività?
L’attuale forma d’esame, intanto, non tiene in nessun conto la diversità dei percorsi di studi (licei, tecnici e professionali) assegnando le stesse tracce per italiano e non prevedendo nella seconda prova la possibilità di esperienze di tipo pratico o di simulazione di casi di realtà, neanche per i professionali. L’attuale sistema di punteggi, poi, non è assolutamente in grado di rappresentare la preparazione scolastica di un giovane.
Perché? Può fare un esempio?
Un 11 in italiano scritto, un 9 in matematica, un 11 in terza prova, un 20 (la sufficienza) nel colloquio, equivalgano ad un valore di 51 come prove d’esame, il quale, sommato ad un credito scolastico di 15, porta a 66/100mi: può un numero, esito della somma di valori così diversi, rappresentare significativamente un livello di “preparazione”? Forse sarebbe meglio introdurre un modello di esame che integri alcune delle attuali prove con altre standardizzate, con elaborati di sintesi frutto di esperienze svolte nell’ultimo anno e rappresentative dell’indirizzo di studi, con un colloquio multidisciplinare che attesti capacità di collegamento e di sintesi acquisite. E l’elaborazione di una certificazione conclusiva che descriva e qualifichi cosa uno studente conosce, ha imparato e sa fare. E, poi, c’è tutto un percorso formativo e culturale pregresso che non è documentato, oggi, in una prova d’esame.
Com’è invece la macchina dell’esame di stato vista da dietro le quinte, lato presidenti, commissari e docenti?
Le commissioni coinvolte sono quest’anno 12.005 ed esamineranno 24.189 classi. Proprio nel momento in cui è forte l’invito alla semplificazione e allo snellimento delle procedure burocratiche e nell’anno in cui va a regime il riordino delle superiori e si auspicava la riforma dell’esame di maturità, se ne conferma esattamente il modello. Senza la minima ombra di un tentativo di cambiamento: una commissione composta da un preside e sei docenti che viene impegnata per oltre venti giorni in circa 600 ore totali di lavoro a valutare due classi di studenti per attribuire un voto in centesimi che, statisticamente, risulta ampiamente prevedibile ed in linea con la media dei voti di ammissione (con tolleranza di oscillazione attorno ai 4-5 punti in più o in meno!). E’ evidente che non vi è assoluta proporzione tra la spesa ed il tempo investito e l’obiettivo di un’effettiva valutazione e selezione in base alle competenze acquisite.
Che cos’è che impedisce di trovare un sano punto di equilibrio? Il centralismo?
Semplicemente, credo, la non libertà di riconoscere che c’è bisogno di adeguarsi, senza semplificare o banalizzare le forme e senza rinunciare in qualche misura a effettuare delle “prove”, alle nuove esigenze di certificazione al termine di un percorso di studi.
Ma lei condivide che gli studenti debbano fare un esame alla fine del II ciclo di studi, o no?
La fine di un ciclo di studi deve essere caratterizzato da un periodo di esami: nella vita ogni passaggio ad un nuovo grado di maturità è sempre documentato dall’esperienza di una “prova” che provoca, realizza ed attesta l’incremento di consapevolezza e, perciò, di cultura che il percorso svolto ha realizzato nella persona. E, poi, la scuola è, oggi, dopo la famiglia, la risorsa di una nazione: per questo è la collettività che, legittimamente, deve verificare che l’investimento di risorse umane, strumentali e finanziarie impegnato nel sistema scuola si misuri, al termine di un ciclo di studi, in termini di incremento di capitale umano.
Lei cosa cambierebbe?
Per ripensare ad un nuovo modello di esame finale occorre guardare alle esperienze virtuose che esistono già nel nostro Paese e, soprattutto, all’estero: ad esempio all’utilizzo, in sede di valutazione finale, dei crediti e del portfolio studente, alla considerazione delle valutazioni acquisite dall’alunno nel corso di studi, al modello di valutazione già previsto per le qualifiche professionali che valorizza esperienze di tipo pratico, alla produzione di lavori di approfondimento personale su discipline scelte dallo studente nell’ultimo anno, all’utilizzo di prove standardizzate gestite e valutate da un sistema nazionale di valutazione “terzo” rispetto all’amministrazione e all’istituto scolastico, ai fini di una certificazione credibile per i vari percorsi di inserimento nella vita attiva.
C’è un modello estero a cui guardare?
Dalla Germania si può assumere, per citare un esempio, proprio il collegamento tra l’impostazione degli studi ed il modello di esame. L’esame di stato del secondo ciclo è un atto interno alla singola scuola: vengono considerati i voti riportati negli scrutini degli ultimi anni e vengono utilizzati sia elementi di preparazione generali, sulla base di standard nazionali, sia produzioni frutto di approfondimento personale dello studente riferite a materie da lui scelte, che si traducono in presentazione di un saggio annuale o di un progetto multidisciplinare. Nei tecnici e professionali poi sono valutate prove svolte nel tirocinio in azienda. Un modello che valorizza, nell’ultimo anno di corso di un liceo o di un istituto tecnico, le scelte personali dei giovani, il suo lavoro di ricerca e l’arricchimento acquisito attraverso esperienze laboratoriali.
Facciamo un’ipotesi dell’irrealtà, risponda sinceramente. Le è data la possibilità di scegliere se tornare alla formula ante-riforma Berlinguer, oppure tenersi questo esame di stato che c’è adesso. Cosa sceglie?
Nessuna delle due formule: sono fuori tempo massimo!
E’ il valore legale che ha deprezzato l’esame di maturità, o è il suo esito, prevedibile e scontato, che ha deprezzato il valore legale?
La proposta di abolizione del valore legale del titolo di studio va seriamente considerata, così che la preparazione di uno studente che un esame conclusivo attesta valga per quello che effettivamente dimostrerà di sapere e saper fare attraverso la prova d’esame. La consegna di un titolo di studio con “valore legale” è ormai ridotta ad adempimento dovuto in nome del dettato costituzionale e l’esame non è più, da tempo, l’elemento utile né per una chiara valutazione finale, né per l’ammissione all’università e neppure per raccogliere adeguate informazioni sull’efficacia del nostro sistema scolastico: non a caso da molti anni gli atenei snobbano gli esiti di questo esame, utilizzando invece propri test e cercando semmai valutazioni degli anni precedenti al quinto. Addirittura per alcune facoltà i test vengono ormai fatti prima dello svolgimento dell’esame di stato.
L’autonomia può o potrebbe cambiare l’esame di stato senza toccare l’estremo opposto, ovvero l’anarchia valutativa?
Cominciamo col dire che per le superiori, la nuova impostazione dei percorsi di studio avviata con i DPR del 2010 poteva far prevedere, a partire da questo anno scolastico, una riscrittura nuova e coerente delle modalità di valutazione conclusiva degli studi superiori: anche questa volta, invece, come, peraltro, nelle precedenti riforme, non vi è stato alcun significativo collegamento della forma di valutazione conclusiva con l’ordinamento degli studi avviato, se si eccettua una debole modifica della seconda prova scritta e l’introduzione dell’accertamento dei moduli Clil svolti durante l’anno.
Vediamo di capirci però. Quello che dice in che cosa si traduce?
Primo. Si deve rivedere l’impostazione del curricolo dell’ultimo triennio di studi caratterizzandolo con la possibilità di scegliere materie a carattere orientativo, laboratoriale e flessibile: nessuna delle riforme introdotte in questo decennio ha collegato, invece, forme di valutazione conclusiva con modifiche dell’organizzazione degli studi esistente.
Secondo?
Ripensare la finalizzazione dell’esame conclusivo: nei paesi più avanzati, se ci sono gli esami d’ingresso all’università non c’è l’esame finale della scuola secondaria di II grado; se c’è invece un esame di stato (e in questo caso è selettivo) non ci sono test d’accesso all’università: ne è un esempio il baccalauréat francese, dove negli ultimi anni la percentuale dei promossi sui candidati non raggiungeva mai l’80 per cento.
Vada avanti…
Terzo. Dare valore e misurare le esperienze di tipo culturale e formativo che lo studente sperimenta nell’ultimo triennio.
Poi?
Caratterizzare l’ultimo anno delle superiori con una quota di discipline che lo studente possa scegliere in funzione orientativa rispetto alla scelta dell’università o delle carriere lavorative: percorsi “vocazionali” caratterizzati anche da esperienze di ricerca e personalizzanti sulle quali operare, in sede di esame finale, serie valutazioni e riscontri di competenza. Insomma, serve un esame in cui gli studenti siano protagonisti.