Si è svolto ieri a Roma il primo dei tre seminari organizzati da Fondazione per la Sussidiarietà e Tony Blair Foundation. Tema della tavola rotonda, “Perché la fede è importante in un mondo globalizzato?”. Riportiamo di seguito il contributo di Onorato Grassi.
Ringrazio dell’opportunità che viene offerta di riflettere su un tema di grande importanza e attualità, quale è quello dell’impatto della dimensione religiosa e della fede sulla vita delle società contemporanee. Solo pochi lustri fa una simile iniziativa sarebbe risultata strana, se non impensabile, essendo la religione relegata nella sfera del privato ed essendosi nella cultura occidentale prodotta una radicale separazione e opposizione fra sapere e credere, fra il mondo delle realtà conoscibili con esattezza e universalità, oggetto della scienza e della filosofia, e quello delle emozioni e dei sentimenti, cui era stata assegnata la religione. L’affacciarsi sulla scena mondiale delle grandi religioni storiche, la persistenza del bisogno e del sentimento religioso in regimi totalitari e atei, il costante avvicinamento di uomini e donne, soprattutto giovani, ai contenuti religiosi, hanno ridisegnato un quadro in cui alla religione è assegnato un posto legittimo e qualificante, come gli stessi mezzi di informazione hanno gradualmente riconosciuto.
Tuttavia sarebbe illusorio ritenere che le radicali critiche di un tempo siano state definitivamente superate e che non vi sia ancora necessità di sanare fratture e incomprensioni derivanti da moderne concezioni della razionalità e dello Stato. Un’ipotesi positiva del rapporto fra religione e società – da sottoporre ad analisi e verifiche rigorose – può favorire anche una riflessione propositiva, che non si limiti al puro piano descrittivo, e che dunque imprima dinamismo alla ricerca e alla discussione. In questa luce vorrei offrire alcune considerazioni sul tema che mi è stato assegnato, quello dell’educazione.
1. I sistemi formativi occidentali sono in una fase di profondo ripensamento. Non solo i paesi che erano stati sotto l’influenza dell’Urss, nei quali la scolarizzazione e la ricerca erano stati fortemente condizionati dall’ideologia, ma anche quelli dell’altra parte dell’Europa sono investiti da ampi e radicali processi di riforma. Qualcosa di analogo sta avvenendo anche nell’America del nord, in seguito ad allarmanti preoccupazioni per livelli di apprendimento insufficienti, nonché per l’estrema specializzazione dell’istruzione, e, per cause diverse, in altre regioni del mondo.
Il bisogno di avvicinare la scuola al mondo della produzione e alle professioni che in esso i giovani saranno chiamati a ricoprire ha spesso condizionato l’opinione di esperti e di legislatori, che in tale funzionalità hanno individuato la vera utilità sociale della scuola. In effetti ciò è vero solo in parte, o non lo è nel modo in cui si è soliti intenderlo. Se infatti è indiscutibile che la scuola, e ogni forma di educazione, deve preparare alla vita, è però altrettanto vero che essa è molto più di un processo di addestramento. La riduzione dell’educazione a training è una scelta che comporta gravi conseguenze, sia sul piano soggettivo – l’individuo è concepito come parte di un processo, nel quale deve esercitare determinate e specifiche funzioni – sia su quello culturale e scientifico – prevalenza delle scienze prescrittive su quelle conoscitive, con un sostanziale deprezzamento del valore stesso della conoscenza. Come osserva Paul Vergely, nell’Occidente di oggi “non si insegna più per destare e vivificare la coscienza dell’uomo e aprirlo al senso della vita. Lo scopo dell’educazione è diventato puramente utilitaristico: acquisire delle competenze tecniche, ai fini di inserirsi nel mercato del lavoro e avere i mezzi per soddisfare la propria individualità. Anche i popoli del mondo guardano l’Occidente non senza sorpresa. Come può una società così evoluta tecnicamente essere anche così arretrata riguardo alla propria consapevolezza della vita, fino al punto di compiacersene?”.
Tale mutamento delle finalità dell’educazione produce un impoverimento sul piano umano, linguistico, concettuale, espressivo e morale che è un prezzo troppo alto perché si resti indifferenti. Un impoverimento che riflette e si riflette nell’impoverimento generale di una società “minacciata dalla propria crisi d’identità e da uno svuotamento interiore senza precedenti, che rende altamente probabile il suo declino”.
Ora, una visione religiosa dell’esistenza, che ponga al centro la persona e la sua ricerca di un significato ultimo per cui vivere, credo si trovi oggi dinanzi ad un bivio simile, ma per molti versi assai più complicato, a quello avvertito quasi 70 anni fa da Jacques Maritain in Education at the Crossroads fra un’educazione tecnico-funzionale dell’uomo, inteso come variante sociale, oppure un’educazione personalistica e integrale dell’uomo, e non possa optare che per questa seconda strada.
Uno spirito religioso, che non intenda l’educazione come indottrinamento o reclutamento di adepti, ma guardi alla persona nella sua singolarità e grandezza, non può che avere a cuore la crescita dell’io umano in tutte le sue dimensioni e secondo le sue facoltà e attitudini. Educare è costituire il soggetto umano, collaborare allo sviluppo pieno e integrale della personalità, la quale, a suo tempo e quando l’occasione lo richiederà, sarà in grado di agire in modo positivo e responsabile. È ciò che sanno i veri maestri, i quali non amano suggerire le soluzioni agli allievi, ma preferiscono indicare loro i criteri e modi per giungere autonomamente alla risoluzione dei problemi. Ciò comporta un rispetto profondo della libertà dell’uomo che, come è detto nella Spe salvi, “è sempre nuova e deve sempre nuovamente prendere le sue decisioni” e il rispetto del suo presupposto, ossia che ogni uomo, così come ogni generazione, rappresenta un “nuovo inizio” nella storia dell’umanità.
Si pone, in questo senso, la necessità di sviluppo della coscienza critica, come esercizio principale nella formazione dei giovani, chiamati a mettere alla prova e, se necessario, superare i pregiudizi dominanti nell’ambiente in cui vivono e ad usare l’arte del ragionamento, inteso come argomentazione e ricerca del senso delle cose (la connessione fra di esse). Lo sviluppo della coscienza critica richiede, da una parte, il riferimento a criteri validi di giudizio e, dall’altra, la familiarità con la tradizione culturale della propria civiltà.
Per il primo problema, la scelta che si pone riguarda la fonte di tali criteri, se essi debbano essere forniti dalla società oppure se possono essere trovati da ciascuno nell’esperienza umana che compie. Si noti che, pur con le difficoltà che la seconda ipotesi può presentare, solo in questo caso l’alienazione e la strumentalizzazione sono evitate. Per il secondo problema, si pone il grave interrogativo di un rapporto non “tradizionalistico” con la tradizione, nel quale forme caduche e legate al tempo siano abbandonate e siano trattenuti i valori che possano avere rilevanza per il presente. Il valore della tradizione è estremamente importante per la formazione critica, giacché è constatabile che forme di fanatismo e, al contrario, di scetticismo, sono spesso correlate ad un’assenza di conoscenza e di memoria storica.
L’educazione si presenta pertanto come una cura dell’esperienza umana, grazie alla quale l’uomo è considerato nella sua realtà personale, non primariamente nella sua funzione – ciò sottolinea il valore del “presente” nell’educazione, come già richiamava Comenio agli esordi della pedagogia moderna, quando sosteneva, nella Via lucis, che “omnes scholae sunt pro vita praesenti, non pro vita futura”. D’altra parte, tale investimento sui giovani e sulla loro crescita – umana, intellettuale e morale – può risultare come la miglior condizione per la crescita economica, sociale e morale di un paese. È bene ricordare, a questo proposito, che le risorse economiche, pur indispensabili, non bastano da sole a promuovere un miglioramento. Recenti indagini sulla scuola in Europa hanno dimostrato che le scuole migliori non sono necessariamente quelle che dispongono di maggiori finanziamenti, bensì quelle in cui gli insegnanti sono preparati e attenti alla crescita dei loro allievi.
Certo, oggi investire sui giovani non può essere senza conseguenze sul piano delle politiche economiche nazionali e internazionali, come ha recentemente ricordato il neo presidente della Bce, Mario Draghi.
Occorre liberare posti per i giovani, ma anche innalzare il livello intellettuale e morale nelle professioni, facendo della crisi un’occasione per diffondere comportamenti virtuosi, valorizzare capacità inventive e innovative, premiare dedizione e senso della gratuità, senza la quale, ben sanno i grandi imprenditori, nessuna impresa può veramente crescere e affermarsi.
L’auspicio è che gli sforzi fatti nel mondo della scuola e dell’università non siano poi delusi, per ristrettezze materiali e per differenti paradigmi valutativi, e che quella costituzione del soggetto, cui è dedicata l’opera educativa, possa dare i suoi frutti nell’età adulta e nel mondo del lavoro.
2. La globalizzazione può essere intesa come fenomeno economico derivante dall’apertura dei mercati oltre i confini di una comunità – nazionale o sovranazionale – nella quale produttori e consumatori sono legati da vincoli di interdipendenza. Ma non è solo questo. La globalizzazione è anche, e soprattutto, un fenomeno psicologico e sociale, che fa da cornice una sorta di “metamorfosi” (per usare un’espressione cara a Derrick de Kerckhove) della società, ove non prevalgono i tradizionali concetti di individuo e di massa, ma le reti, le interconnessioni, la comunicazione.
Nel mondo globalizzato siamo già entrati, e vi sono già entrati soprattutto i giovani delle ultime generazioni, i cosiddetti “nativi digitali”, che nella rete si sentono a casa loro. Il mondo, grazie alla tecnologia, non ci appare più di fronte, ma è ciò in cui siamo immersi e che è vissuto nel presente.
Se tutto ciò produce cambiamenti a livello cognitivo – gli esperti sostengono che l’era digitale verso cui stiamo andando sarà eminentemente cognitiva – e psicologico – la percezione della realtà è diversa che in passato, tanto quanto le nozioni di tempo e di spazio (nell’era della comunicazione istantanea l’accesso al mondo è immediato e senza distinzioni, ove ciascuno prende parte al dramma della vita in un modo del tutto nuovo – occorre riflettere sulle conseguenze, positive e negative, cui si può giungere e sui modi per affrontarle.
A questo proposito credo sarebbe importante considerare una serie di temi, pertinenti alla condizione umana, e giovanile in particolare, che hanno a che fare con la coscienza umana, vero fulcro del problema conoscitivo e morale. Essi possono essere indicati come il problema della “consapevolezza” o del “rendersi conto”, del “sapersi orientare”, e della “capacità di giudicare”.
Sono questioni che richiederebbero una trattazione specifica e ampia. Mi limito perciò ad osservare che l’essere consapevoli – di ciò che accade, delle parole che si dicono, degli atteggiamenti e dei comportamenti che si assumono –, il saper operare scelte motivate e giuste, o quantomeno plausibili – senza seguire mode e opinioni dominanti –, esercitare il giudizio, come espressione di una personalità e del suo impegno col mondo, sono segni evidenti di libertà e di valorizzazione dell’esperienza umana, nella sua radicale elementarità, ove affiorano esigenze ed evidenze inestirpabili, che fanno di ciascun uomo un soggetto irriducibile e autentico. Si tratta del “diritto e dovere di ciascun uomo di cercare la verità” in cui il Vaticano II ha visto l’espressione più piena della libertà religiosa.
Se la fede, e le religioni, sono una risposta, o un tentativo di risposta, alle domande di senso, di salvezza, di libertà, dell’essere umano, credo che il frutto dell’opera di uomini religiosi sia quello di tener viva e operosa, nelle vicende e nelle circostanze umane, tale esperienza elementare e renderla terreno fertile, su cui gli uomini possano incontrarsi, scambiarsi le ragioni delle loro scelte e dei loro giudizi, realizzare insieme una “bella forma” del mondo.
L’educazione, in tale senso, rappresenta la dinamica umana più profonda e spiritualmente più forte del rapporto fra persona e mondo globalizzato, e può consentire di raggiungere nuovi traguardi, oggi imprevedibili, quale esito di costante impegno di uomini attenti alla realtà e solerti nell’afferrare i segni e i suggerimenti che da essa provengono.
3. In un suo recente studio (Contrasting Models of State and School), Charles Glenn ha riproposto e documentato la tesi della stretta interdipendenza fra concezione della scuola e concezione dello Stato: sistemi scolastici aperti e attenti al pluralismo sono tipici di società liberali, mentre è consueto che sistemi uniformi e rigidi si trovino in società ove prevale la centralizzazione statale.
Oggi non solo la politica può influire sulle scelte educative; fattori economici, sociali, e, in generale, le esigenze del mercato, sembrano prevalere, non solo nel dettare ai singoli le scelte da compiere, ma anche le direttive che le istituzioni devono seguire per poter sopravvivere.
Naturalmente è impossibile non fare i conti con la storia e con le condizioni materiali di vita di una società e dei singoli individui, e ogni impresa, per realizzarsi, deve tener conto dei contesti concreti e delle effettive condizioni che si presentano. Tuttavia sarebbe un errore considerare l’educazione, nel mondo globalizzato di oggi, come una semplice variante dipendente del contesto originale. Per quanto sinora detto, appare chiaro che l’educazione ha a che fare con l’esistenza umana, nella sua integralità e integrità, e ad essa deve soprattutto rispondere, a quelle domande ed esigenze che costituiscono l’anima più vera dell’uomo, per cui egli avverte di dover dar senso a quello che fa e di trovare una ragione plausibile alle sue scelte e, più in grande, alle sue opere.
L’incontro fra uomini – e l’educazione è eminentemente incontro fra libertà umane – è un dato originario, ultimamente irriducibile al contesto storico e politico. Tale incontro è il “fattore umano” delle sorti di una società ed è ciò che ne misura il grado di libertà.
L’uomo contemporaneo vive costantemente sotto la minaccia dell’omologazione: del linguaggio, delle mode, dei gusti, perfino del modo di pensare e di scegliere. La globalizzazione può essere strumento di tale omologazione, oppure, più auspicabilmente, occasione di una vera pluralità. L’Europa è stata nelle varie epoca emblema di un mondo plurale, nel quale diverse identità, senza annullarsi, potevano entrare in contatto e rapporto fra loro, arricchendosi vicendevolmente. Oggi occorre impegnarsi affinché la pluralità delle esperienze, delle identità e delle tradizioni costituisca la ricchezza del mondo. Il test di ciò sarà la libertà che sarà riconosciuta all’educazione, a quell’impresa che, dal basso, impegna ogni uomo e lo pone, continuamente, nel rapporto col mondo, con le cose, alla continua scoperta del senso e del valore, di sé, degli altri, della realtà. Sicché si può ben concludere che l’autonomia educativa è il fondamentale presidio della libertà, di ciascuno e di tutti, del proprio paese e di un mondo, oggi a noi più vicino di altri tempi, che deve risultarci amico e non un avversario da temere.