La scuola è come la formazione della nazionale di calcio: ogni docente, ogni studente e ogni genitore – non parliamo di qualsiasi italiano che non ha altro a che fare con la scuola che il fatto di esserci a suo tempo stato – si sente in grado di dare suggerimenti all’allenatore (il parlamento e i decisori tecnico-politici) e saprebbe meglio di chiunque altro quale modulo di gioco risulterebbe vincente in campo.
La circostanza non deve stupire. Dimostra che l’educazione e la scuola sono davvero di tutti, non prerogativa di nessuno, e che tutti, qualunque sia la loro condizione professionale, civile ed anagrafica, solo perché e in quanto «persone umane», non «si sentono di dover dire qualcosa in proposito», ma «devono dirlo» e, al contempo, «assumersi le responsabilità che conseguono da queste loro personali preferenze».
La circostanza segnala, però, anche una duplice difficoltà, prima di tutto politica, ma subito dopo anche tecnica, nel prospettare qualsiasi reale riforma della scuola.
Difficoltà politica perché non è facile far sintesi di tutte queste preferenze personali, discuterle, portarle a maturazione e trovare un orientamento comune da rendere poi operativo. Il che spiega perché, in teoria, dovrebbe essere più facile introdurre cambiamenti in una fase politicamente più costituente che ordinaria. Fuor di metafora: sarebbe stato più facile riformare in profondità gli ordinamenti, l’organizzazione e la natura della scuola italiana tra il 1948 e il 1951 (appena dopo l’entrata in vigore della Costituzione, proprio per attuarla) oppure tra il 2001 e il 2003 (appena dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, proprio per attuarne le innovative disposizioni), piuttosto che nei periodi successivi, quando lo spirito costituente sfiorisce e subentra la dialettica dei contingenti interessi politici e il pendolo delle maggioranze politiche. Pendolo, peraltro, che, da noi, negli ultimi dieci anni, è stato così manicomiale da introdurre l’eccentrica figura di maggioranze che, per opporsi a quelle che le avevano appena precedute, non si imbarazzano a rinnegare, quando tornano al governo, perfino ciò che avevano loro stesse disposto prima di perderlo.
Difficoltà tecnica, in secondo luogo, perché quando bisogna comporre in ordinamenti, istituzioni e organizzazioni formative così tanti interessi e così differenti preferenze sarebbe indispensabile evitare ogni tentazione ingegneristica di tipo saintsimoniano. Neanche un trust di premi Nobel scolastici, veri e propri taumaturghi del sapere, riuscirebbe, infatti, per recuperare la metafora calcistica, a mettere in campo una riforma della scuola davvero soddisfacente se non per tutti, almeno per la maggior parte. Meglio, dunque, non pretendere mai, sul piano tecnico, di sfornare disegni di riforma della scuola che siano pretenziosi e analitici, con norme minuziose e di dettaglio. Tanto meno pretendere di organizzare il tempo, lo spazio, i contenuti e i metodi di studio di tutti gli allievi italiani ora dopo ora, settimana dopo settimana, per 32 settimane all’anno con un bel, illuminato progetto centrale. Il centralismo, in questo caso, a qualsiasi livello sia praticato (a Roma, nei capoluoghi di Regione, nei capoluoghi di provincia, negli assessorati dei comuni, nella dirigenza delle scuole) è, dal punto di vista organizzativo, il modo migliore per allontanare l’incontro efficace e reciprocamente soddisfacente tra le persone e l’istituzione scuola e, soprattutto, per trasformare ciò che dovrebbe essere l’esperienza della scholé (la gioia e la letizia dell’insegnare e dell’apprendere e dello stare insieme con altri che crescono con noi) in una specie di giogo pesante e penitenziale di cui sbarazzarsi il più presto possibile o, al massimo, di cui sopportare le amarezze, come l’olio di ricino, solo in vista di sperati vantaggi economici e sociali futuri. Sul piano tecnico, invece, se si desidera valorizzare davvero il coinvolgimento, la motivazione, l’energia intellettuale, la responsabilità morale di tutti, senza scadere nell’elitismo e reintrodurre la antica teoria dei «due popoli» nella quale il 2% di sé dicenti «sapienti» comanda, guida e modella il rimanente 98% di «in-sipienti», ritenuti «massa» (da maza, pasta, materia modellabile a piacimento da qualcuno) o «folla» (da follone, macchina a martelli per la follatura dei panni: insieme di esseri umani «follonati» dal lavandaio di turno), bisogna praticare scelte istituzionali, ordinamentali e organizzative che allarghino il più possibile gli spazi di autonomia. In altre parole, che amplino il più possibile gli spazi e le occasioni di esercizio della libertà e della responsabilità sia per i singoli sia per le «formazioni sociali all’interno delle quali ciascuno sviluppa la propria personalità» (art. 2 della Costituzione). Da questo punto di vista, cioè, bisognerebbe praticare ciò che, saggiamente, avevano già previsto i nostri costituenti, ovvero l’art. 5 e gli artt. 33 e 117 della Costituzione: al centro dettare solo «norme generali sull’istruzione» statale (generali: va ripetuto) e i «livelli essenziali delle prestazioni per l’istruzione e formazione professionale» regionale, il cui rispetto va scrupolosamente controllato e le cui violazioni vanno duramente sanzionate dal centro stesso; in periferia, però, per poter avere una buona scuola, bisogna attuare senza reticenze l’autonomia, cioè valorizzare quanto più è possibile la libertà e la responsabilità dei territori, delle famiglie e delle singole persone nella definizione dei percorsi e dei processi formativi.
Il nostro paese, tuttavia, non ha voluto (o non è riuscito a) superare né la segnalata difficoltà politica né, tanto meno, quella tecnica. In un libro recente (Autonomia: storia, bilancio e rilancio di un’idea) ho cercato di spiegare perché, a mio avviso, la riforma costituente della scuola non sia riuscita ad imporsi né tra il 1948 e il 1951, né tra il 2001 e il 2004. Inoltre, ho cercato di argomentare perché l’impianto tecnico dei nostri ordinamenti e della nostra istituzione scuola sia ancora lontanissimo, al di là della ormai insopportabile retorica di rito, dall’assumere come sistematico principio ordinatore l’autonomia e la sussidiarietà.
Poiché, tuttavia, anche nei periodi di impotenza riformatrice sia politica sia tecnica la scuola, per usare la metafora di Neurath, è comunque una nave che deve navigare ed affrontare le sempre diverse e a volte sempre più pericolose condizioni del mare, è naturale che il nostro sistema di istruzione e di formazione si sia trasformato, e non poco, nel tempo. Gli impianti strutturali del naviglio, però, sono rimasti quelli gettati tra il 1936 e il 1943 dall’accoppiata De Vecchi-Bottai. Visto da fuori e perfino da dentro il vascello «scuola italiana» non è più quello di allora. Cambiati i profili, i colori, gli arredi, gli spazi per passeggeri e anche, of course, le destinazioni e il loro significato. Gli impianti strutturali del naviglio, tuttavia, sono rimasti sempre gli stessi. Chi lo dimentica, a parte l’amnesia storica, sempre deplorevole perché rende impraticabile il pentimento e, di conseguenza, i buoni propositi, cade sempre e non può non cadere, nel presente, o nel velleitarismo volontaristico personale o nel giustificazionismo storicistico (quello del «non si poteva fare altrimenti», di cui tantissimi, da noi, sono insuperati e interessati maestri).
Ora, proprio la vicenda della scuola media è una delle prove più convincenti di questa diagnosi (una delle prove, perché lo sarebbe ancora di più il caso della scuola secondaria di secondo grado e lo sbalorditivo «destino» dell’istruzione artigiana e professionale prevista dalla Costituzione del 1948 e dell’istruzione e formazione professionale prevista in quella del 2001).
Per riprendere alcuni temi posti dall’interessante dibattito aperto da IlSussidiario.net, ci mancherebbe altro, infatti, che, in epoca repubblicana, la scuola secondaria di primo grado (questa la denominazione rigorosa e già in se stessa eloquente della scuola media) non fosse democratica e aperta a tutti come la vecchia scuola «elementare» (ma non si dimentichi che, per questo, si è dovuto aspettare il 1963 sulla carta e il 1973 nella realtà).
Ci mancherebbe altro, inoltre, mettere in discussione non solo la professionalità, ma l’umanità profonda, la generosità educativa e la sensibilità civile di quasi tutti quelli che vi lavorano.
Ci mancherebbe altro, infine, fingere di chiamare ancora «scuola» un mero istituto di cura, assistentato e socializzazione che insegnasse poco o nulla, che sfornasse ignoranti e che non trovasse la sua identità e la sua sostanza nell’uso educativo della cultura e dei «contenuti» disciplinari che la contraddistinguono.
Resta un fatto, tuttavia, che, ancora oggi, 2009, si continua a parlare di «scuola dell’ordine elementare» per e da maestri come ne si parlava nel 1923, nel 1928 e nel 1936 e di «scuola secondaria di primo grado per e da professori » come nelle stesse date prima ricordate. E si agisce (vedi le recenti proposte ministeriali sulla formazione dei docenti) come se questa diversità fosse un trascendentale dell’essere.
Se il nostro mondo è il nostro linguaggio (Wittgenstein), vorrà pur dire qualcosa, inoltre, che non sia passata a pratica e mentalità comune la teoria e, tanto meno, la pratica di un’espressione come «scuole (plurale!) del primo ciclo di istruzione», certo con la loro indispensabile specificità e discontinuità epistemologica, metodologica e organizzativa, ma, allo stesso tempo, con una loro dichiarata continuità strutturale di impianto, di organizzazione e di docenza, visibile soprattutto tra la quinta classe della scuola primaria e la prima media. E che questo accada perfino nei cosiddetti istituti comprensivi, dove le due scuole si accostano, ma ancora non si innestano tra loro sul piano ordinamentale.
Così come resta un fatto che, al di là della competenza e della buona volontà dei singoli docenti, il calo più rilevante negli apprendimenti degli studenti italiani non accada, in proporzione, tra i 12 e i 15 anni, e nemmeno dopo, ma avvenga proprio tra i 9 e i 12. E che sia in questa fascia che comincino a stagliarsi in modo netto e, secondo certi studi, perfino in maniera sinistramente predittiva, quelle sindromi che poi si chiameranno «disadattamento scolastico e sociale», «bullismo», «disapprendimento», «svalutazione di sé», «analfabetismo di ritorno».
E infine resta sempre un fatto che non esista ancora, in particolare per quest’età, la più difficile, la più ingrata, ma anche la più preziosa, diceva a suo tempo Emilio De Marchi, una funzione educativa specifica e ordinaria di holding, di coaching e di counselling per i ragazzi come doveva essere il docente coordinatore-tutor della riforma Moratti, a garanzia della personalizzazione dei percorsi formativi soprattutto per i più bisognosi. Come è possibile, del resto, aver immaginato di transitare dalla scuola d’élite alla scuola di tutti e di ciascuno mantenendo la stessa formula del consiglio di classe di gentiliana memoria e, per di più, gli stessi strumenti di disciplinamento degli studenti che furono previsti allora?