C’era una volta una signora elegante che possedeva una collana di perle e diamanti, antica e molto preziosa. Quel gioiello le era giunto in eredità, dopo essere passato di generazione in generazione, sempre custodito con l’attenzione che meritano i cimeli ricchi di storia. Ma la signora cominciò un giorno a notare che i diamanti erano antichi sì, ma di taglio un po’ antiquato, poco corrispondenti al gusto moderno: belli, ma pieni di intrusioni, e poco luminosi; le perle, poi, erano delicate, e andavano portate spesso per preservarne la luminosità. Presto, la collana venne a noia alla signora: le sembrava poco luccicante e poco alla moda. Così, per sembrare moderna, comprò, in sostituzione della vecchia, pardon, dell’antica collana, un bellissimo gioiello di moderna bigiotteria, con tanti strass e cristalli, che brillava molto di più e faceva una gran figura, visto da lontano.
Nell’aneddoto è condensata la storia recente del liceo classico in Italia: eredità di valore inestimabile — poche scuole nel mondo sono state più formative e più rigorose — ma che sembra per lo più guardata nel nostro Paese con noia e disappunto, come un cimelio del tempo che fu, con l’idea, nemmeno troppo sotterranea, di sostituirla con qualche ordine di scuola più à la page, più moderno, europeo (ecco l’aggettivo sempre usato), in linea con le competenze richieste dal mondo del lavoro, sempre più liquido e mutevole (anche questo, quante volte l’abbiamo sentito dire?), disincentivando le famiglie dalle iscrizioni (in picchiata, con qualche timida ripresa negli ultimi tempi), e proponendo su giornali, tv, web come spendibili e auspicabili tutta una serie di abilità che sembrano più moderne delle ore passate sui vocabolari di latino e di greco. Orbene, contro tale attacco Miska Ruggeri ci propone la sua riflessione in Giù le mani dal Liceo Classico, BookTime, Milano 2017, 51 pp.). L’autore, laureato in lettere classiche e in filosofia, giornalista, si è occupato di Posidonio e di Apollonio di Tiana, ed entra ora nella vexata quaestio sul futuro del liceo classico con una presa di posizione netta, come dichiara il sottotitolo, “Un manifesto reazionario”.
Ma se è reazionario pensare a una continuità in un sistema di istruzione, in questo caso possiamo simpatizzare con la reazione. Il discorso si sviluppa nel segno della citazione di Th.W. Wilson in esergo: non si potrà mai “trovare un equivalente alla letteratura classica, nè il contatto immediato con questa si potrà ottenere senza il possesso sicuro della grammatica e della sintassi che ne dischiudano il tesoro”. Pare lapalissiano: in effetti, anche se avida lettrice di Tolstoj e Cechov, io mai potrei definirmi una slavista, visto che non conosco più di dieci parole di russo. Ma se si parla di latino e greco nella scuola, la prospettiva cambia, visto che si tende ormai da più parti, e con varie sfumature, a sostenere che “non importa” (!) soffermarsi troppo sulla lingua. E questa è una delle prime cure di Ruggeri: lo studio della grammatica, della sintassi, della consecutio, vanno difesi: essi sono tramite indispensabile per capire la letteratura, e quindi il pensiero e il mondo intellettuale, dei classici. Latino e greco sono un mezzo e non un fine, visto che molti scienziati, “da Guido Tonelli a Fabiola Gianotti, riconoscono l’importanza fondamentale dell’istruzione classica, quanto sia stata decisiva per la loro formazione”. Addirittura, Tonelli sostiene che “una buona formazione classica è assolutamente indispensabile a società come le nostre, plasmate cioè dal sapere scientifico e tecnologico” (ibid.) ed è “più necessaria oggi che cinquant’anni fa, ed è vitale che sia diffusa”. Certo, queste cose ce le potrebbe assicurare anche un filologo classico, ma sarebbe accusato di parlare pro domo sua giusto per usare la lingua di Cicerone: meglio citare chi parla super partes e sine ira et studio.
Frequentare i classici (e studiare il latino e il greco) insegna ad affrontare la fatica quotidiana dello studio, che è fatica anche fisico-posturale, spiegava Gramsci; a parlare bene, con un lessico corretto; a dominare i media senza farsi infinocchiare (e sì, la filologia è “medicina antibufale”, cfr. Paolo Di Stefano, Corriere della Sera, 20 marzo 2013); a capire il nostro tempo e a persuadersi che non tutti i problemi hanno una soluzione (cfr. Luciano Canfora, Gli antichi ci riguardano, Bologna 2014).
E che dal liceo classico non debbano uscire schiere di futuri editori di Euripide e traduttori di Tacito, e tuttavia, proprio per questo sia una scuola preziosa, lo conferma Massimo Fini nella prefazione: a scuola siamo sempre intenti a rincorrere le ultime “novità” (le ricordate “le tre I”, e l’ormai obbligatoria alternanza scuola-lavoro?), è vero. Ma se “un po’ di inattualità non la fa la scuola, chi la farà mai? L’attualità, attraverso i giornali, la pubblicità, Twitter, Facebook, gli altri social network e tutto il mondo web, ci esce dagli occhi e dalle orecchie. Ma se uno non studia Platone o Lucrezio a scuola, quando mai li studierà nella vita?”. Fini prende proprio se stesso come esempio della validità del liceo classico: “Ho fatto un Classico sciagurato, perché non studiavo, in greco non ho mai preso più di tre, e in latino più di cinque. Eppure l’imprinting del Classico mi è rimasto addosso. Tant’è che poi ho fatto un’Università al massimo livello (…) Ecco, ciò che deve dare la scuola non è solo rigore e nozioni, pur utilissime (…) ma deve fornire soprattutto gli strumenti per capire il mondo del passato e anche quello in cui viviamo”.
Non sarebbe possibile dirlo meglio. E allora, tornando all’aneddoto iniziale, possiamo convincere la signora elegante a non sostituire la sua preziosa collana con della luccicante, ma farlocca bigiotteria?