Il Novecento italiano nelle arti figurative è mal rappresentato nei cataloghi internazionali: spesso si colgono degli aspetti importanti, ma singolari, privi di impianto sistematico; nonostante una grande attenzione scientifica e accademica nei più prestigiosi centri esteri, mancano un ragionamento e un’analisi sulle basi del nostro ventesimo secolo. Se volessimo prenderci la libertà di datare e individuare inizio e compimento delle ambizioni artistiche della scultura e della pittura in Italia, proprio all’alba del “secolo breve”, non potremmo che rivolgerci a Umberto Boccioni (1882-1916), nocchiero dello sperimentalismo novecentesco tragicamente scomparso per una caduta da cavallo ancora nel fiore degli anni.
Futurista, interventista, cubista (non a detta sua, che al Cubismo rimproverava compiaciuta staticità), Boccioni è il vero grande studioso del rapporto tra il movimento e la forma nel Novecento occidentale. Intuisce come il movimento non sia soltanto il prodotto della condotta di un soggetto, ma che abbia anche una oggettività trascendentale sua propria, che “lavora” le figure e piega alla sua direzione (ben lo dimostra la celebrata scultura del 1913 “Forme uniche della continuità nello Spazio”). L’artificio dell’intelletto umano non fa che riprodurre questa necessità del moto e le sue creazioni più vivaci proprio dal moto traggono origine: l’industrializzazione di massa, i ritrovati di una tecnica sperimentale in vorticosa evoluzione, gli scenari della folla nella crescente dinamica sociale metropolitana.
Questa dichiarazione di intenti può farsi carne solo e soltanto nell’amata Milano, che di quella crescita e di quella velocità è per molti, con tutta l’illusione e, spesso, la propaganda del caso, il faro e la musa, la concretizzazione storica e l’approdo teorico. Il Boccioni “milanese” è il geniale conduttore di questo immaginario sociale del movimento e della velocità. A qualcuno parve irrazionalismo giovanile, invece nei dipinti dedicati a quella città europea che prende corpo sono chiare le tracce di un organicismo che è a base della promessa scientifica del primo Novecento: la vita di città, col suo avvicendamento continuo nel processo produttivo e nelle dinamiche della riproduzione sociale, è altro, oltre, e più, della vita dei suoi singoli abitanti. È quella istanza oggettiva e trascendente del movimento che guida e supera i singoli soggetti in moto nello spazio; è, anzi, energia che contiene lo spazio.
Lo dimostrano bene, allora, proprio quei ritratti di una Milano effervescente, pienamente se stessa solo all’atto del suo muoversi: contro la retorica lavorista del marxismo teorico, è dinamismo “Il lavoro (la città che sale)” del 1910; è dinamismo mimetico, spontaneo, incontenibile, la “Rissa in galleria” del medesimo anno, di una sensibilità descrittiva che non sfigura oggi, oltre un secolo dopo. Ed è capolavoro puro “La strada entra nella casa” (1911): la giunonica donna in balcone è gaudentemente sopraffatta dal brulicare del corso, dai suoi palazzi sghembi che sembrano giganti in cammino.
L’irresistibile Boccioni è duplicemente testimone alto di quell’Italia: da un lato, la cultura e la formazione teorica ne decretano la capacità di cogliere i linguaggi artistici e di farsi studioso e pittore di caratura internazionale; dall’altro, la frenesia che lo accompagna, coi suoi multiformi colori e le sue proiezioni in transito permanente, è il sogno di un Paese che sogna di spazzar via ogni immaginario perdente del suo provincialismo e della sua minorità ottocentesca.