Lanciato da un Appello, sottoscritto il 17 novembre del 2005 da opinion leaders, da opinion makers, da operatori dell’educazione, ripreso nel linguaggio quotidiano della pubblicistica e del dibattito politico, l’allarme per l’emergenza educativa che il Paese attraversa sembra ora svanire lontano, come il suono dell’ambulanza che si perde nei mille rumori del traffico metropolitano. Il boato della crisi finanziaria ed economica globale ha riempito le nostre orecchie di un rumore più lacerante e continuo. Eppure l’Appello era amaramente realistico e profetico: «L’Italia è attraversata da una grande emergenza. Non è innanzitutto quella politica e neppure quella economica… ma qualcosa da cui dipendono anche la politica e l’economia. Si chiama “educazione”… Sta accadendo una cosa che non era mai accaduta prima: è in crisi la capacità di una generazione di adulti di educare i propri figli». Esso chiedeva alle famiglie, alla scuola, alla società, alla politica di assumersi, ciascuno, le proprie responsabilità.
Ora, la “Grande crisi” apre prospettive drammatiche di sofferenza, di incertezza, di solitudine per milioni di persone nel nostro Paese. In questo scenario l’Appello esige una verifica e un rilancio. Giacché di tutte le misure urgenti, quelle più urgenti dovrebbero riguardare l’educazione delle giovani generazioni. Viceversa, la reazione prevalente della classe dirigente di questo Paese pare riprodurre antichi riflessi keynesiani da seconda rivoluzione industriale: immettere denaro pubblico nelle banche, nelle imprese, nell’edilizia, nei trasporti, nei ponti ecc…ecc…
E nell’educazione? Il presidente Obama ha stanziato per il sistema educativo americano 115 miliardi di dollari su 700 circa investiti per tamponare la crisi, circa il 16%. Investe 115 miliardi non per finanziare la riproduzione di strutture obsolete e inefficienti, ma per scommettere sulle “charter schools”, scuole pubbliche messe in piedi ad hoc, per un periodo determinato, sottoposte a verifica quinquennale. Soldi e innovazioni, questa sembra essere la filosofia. Dietro sta l’idea che l’educazione è condizione di tenuta antropologica, sociale e di sviluppo economico. Sta la percezione che questa crisi è anche l’ultima del tempo storico della seconda rivoluzione industriale e che occorra attrezzarsi per l’economia della conoscenza, per il Lifelong/Lifewide/Integrated Learning. E forse è salutare.
E qui in Italia? Dopo lo slancio riformistico Berlinguer-Moratti, è stata praticata una filosofia minimalista, fatta di manutenzione dell’esistente e di rinvii al futuro di misure pensate già tempo fa come urgenti. La politica finanziaria dell’istruzione dell’ultimo anno ha potato tutti gli alberi del giardino alla stessa altezza, quelli alti e quelli bassi, quelli ormai secchi e quelli verdeggianti. Ha fatto cassa senza razionalizzare e senza investire. Dal flusso dei miliardi di euro che la crisi ha smosso, il sistema educativo nazionale è stato tagliato fuori, salvo che per pochi spiccioli per l’edilizia…scolastica. Eppure è facile prevedere che reggeranno quei Paesi e quei sistemi, la cui infrastruttura antropologica, sociale, scientifica, conoscitiva sia oggetto di cura privilegiata e di investimenti lungimiranti. Pertanto servono innovazioni e soldi. Risparmiare senza innovare si può fare un anno o due, ma poi le mort saisit le vif. Il vecchio sistema non riformato riprenderà a ingoiare denaro e a sottoprodurre cattiva educazione.