Fra le molte varianti del mito di Eracle, il grande eroe panellenico autore delle celebri fatiche, c’è una drammatica costante: la morte umiliante sulla vetta del monte Eta, fra le sofferenze procurate dal veleno del centauro Nesso che la moglie, ingenua e inconsapevole, ha creduto un filtro d’amore. Ma le varianti si ripetono a proposito dell’esito della morte del personaggio: l’annientamento? la discesa agli inferi? o un tardivo intervento di suo padre Zeus, che lo riconosce come figlio e lo assume fra gli dèi?
Sono le domande che percorrono una delle tragedie meno note di Euripide, gli Eraclidi, dedicata ai figli dell’eroe che Euristeo, l’antico persecutore del padre, vorrebbe catturare e uccidere per impedirne la rivendicazione. All’inizio della tragedia sappiamo che i fratelli maggiori vanno errando per la Grecia nel tentativo di procurarsi un esercito di alleati; le sorelle e i fratelli più piccoli si sono invece rifugiati ad Atene sotto la protezione degli dèi e nella speranza di un aiuto concreto da parte della città. Con loro ci sono due anziani: Alcmena, la madre di Eracle concepito per un inganno da Zeus, e Iolao, parente e amico di Eracle che ha fedelmente cresciuto i suoi figli. E’ quest’ultimo a pronunciare fin dall’inizio parole di certezza sulla sorte dell’amico: “io solo presi parte a molte delle fatiche d’Eracle, quand’egli era ancora fra noi, e da quando abita in cielo cerco di salvare i suoi figli tenendoli sotto le mie ali, pur avendo anch’io bisogno di salvezza…“.
Non c’è in Iolao alcun dubbio: l’assunzione in cielo dell’eroe così ingiustamente morto è l’esito ovvio e sicuro per un figlio del supremo dio. Alcmena invece serba dalla sua giovinezza un cupo rancore: Zeus si è unito a lei contro la sua volontà di sposa fedele, suo marito ha allevato il figlio del dio come proprio con costante generosità e fedeltà, mentre il vero padre l’ha abbandonato per sempre. Quando Iolao la chiama per farle sapere che hanno a disposizione un esercito e che il maggiore dei nipoti è tornato per unirsi agli alleati ateniesi, l’anziana donna reagisce con scetticismo: “questo discorso non c’entra più con me“. Iolao vuole rassicurarla: “anche Zeus ha a cuore le tue sofferenze, io lo so“. Ma riemerge tutto il dolore della madre tradita: “Ahimé! Zeus non avrà da me parole cattive: ma lui sa bene se è giusto verso di me“. Risentiamo l’amarezza delle parole che a sua volta Sofocle attribuisce al figlio di Eracle: “gli dèi si fanno chiamare padri ma si disinteressano delle cose umane“.
C’è un altro personaggio doloroso nella tragedia: la maggiore delle figlie, Macaria, che si offre in sacrificio per la salvezza dei fratelli. Il suo slancio di eroina poggia sull’amarezza di una vita senza sbocchi, e su un’idea di morte in cui non solo per il padre ma per lei e per tutti l’annientamento è il destino migliore, a fronte di una vaga ipotesi di aldilà: “sarebbe assai meglio che non ci fosse nulla! perché se noi mortali destinati a morire avremo angosce anche laggiù, non so dove ci si potrà rivolgere“.
Ma Euripide, allievo dei sofisti e sempre diviso fra razionalismo scettico e desiderio di credere nel divino, sceglie straordinariamente di introdurre in questa tragedia il miracolo. E’ la fede semplice di Iolao a provocarlo: deciso a partecipare all’imminente battaglia nonostante la vecchiaia, ottiene di ringiovanire per un giorno per poter combattere con Euristeo. Così racconta il messaggero ad Alcmena: “Nello scorgere il carro di Euristeo, Iolao pregò Ebe — la dea della giovinezza — e Zeus: di ritornare giovane per un giorno solo e trarre vendetta sui suoi nemici. Ora puoi udire un miracolo: sui gioghi dei cavalli si posero due stelle e nascosero il carro con una fitta nube: erano tuo figlio ed Ebe, così dicono i più saggi. E uscendo da quella fosca nube Iolao mostrò un aspetto giovanile nelle membra rinnovate“.
Non è solo la vittoria su Euristeo, la salvezza per sé e per i nipoti, a rallegrare Alcmena. Il miracolo le testimonia che Zeus non l’ha abbandonata, e che realmente Eracle è vivo ed è in cielo: “O Zeus, tardi hai guardato ai miei mali, ma ti ringrazio per ciò che è avvenuto. Ora so con chiarezza, mentre prima non lo credevo, che mio figlio vive in mezzo agli dèi“.
E’ compito del Coro di anziani ateniesi, finora soltanto spettatori della vicenda, seppure solleciti e affettuosi, commentare l’accaduto come monito per la città e per tutti gli uomini a cogliere i segni degli dèi: “O città, la strada che percorri è giusta, e occorre che tu mai ti allontani dal venerare gli dèi. Chi non la pensa così dinanzi a fatti simili e tanto evidenti, è vicino alla follia. Infatti dio offre un segno, ma fa deviare la mente degli empi. O vecchia, rifuggo dal prestare ascolto al racconto, secondo cui tuo figlio sarebbe sceso nell’Ade, una volta ucciso nel corpo dalle terribili vampe del fuoco. Tuo figlio è salito al cielo“.