Seconda e ultima parte dell’articolo di Giorgio Chiosso dedicato ai compiti a casa. Leggi qui la prima parte.
Seconda osservazione. Si dice: i compiti a casa sono spesso l’inutile ripetizione di quanto è stato fatto in classe. Può darsi che qualche volta ciò accada, ma in generale — e contrariamente all’opinione corrente — la “ripetizione” non è inutile. Certo, oggi questa tipologia di lavoro didattico non gode di grande stima. I manovratori del tram dell’istruzione propongono strategie didattiche più accattivanti che “fanno notizia”, anche se più ardite perché meno collaudate: problem solving, classe rovesciata, impiego delle tecnologie, apprendimenti senza libri.
L’ingresso nelle scuole di queste e altre novità — non so con quali difese personali da parte dei docenti: ricordo solo che anche in passato sono circolate molte altre “parole magiche” come mastery learning, “ricerca”, “didattica per obiettivi” — non confligge con la valorizzazione di buone e consolidate pratiche. C’è ripetizione e ripetizione. Gli esercizi centrati sulla ripetizione passiva producono nozionismo, pappagallismo, semplice memorizzazione. La ripetizione attiva sollecita, invece, capacità di approfondimento e di rielaborazione, padronanza più sicura di processi e procedure, elaborazione di un sistema personale di apprendimento. Quando sappiamo ripetere e se ripetiamo in modo intelligente costruiamo un sapere competente in grado di essere totalmente “nostro” e trasferibile in un ambito diverso.
I promotori del cooperative learning (pratica didattica anch’essa oggi in grande spolvero), ad esempio, danno grande rilevanza alla ripetizione (in questo caso tra pari). Attraverso questo esercizio nel gruppo si instaura una circolarità virtuosa di punti di vista che favorisce e migliora la comprensione personale. Naturalmente quest’ultimo processo è molto più complesso della sola ripetizione. Infatti si basa su intuizione, problematizzazione, argomentazione, elaborazione, ma infine per saper trasferire la conoscenza occorre saperla ripetere per verificare se e in che misura il processo di apprendimento ha avuto esito positivo o meno.
La ripetizione casalinga va orientata in questa direzione. Ma perché questo accada — e siamo alla terza osservazione — occorre che i compiti siano pensati dagli insegnanti in forma interattiva con la programmazione in aula. Non possono essere confinati in una specie di serie B delle attività scolastiche: in classe si fa ciò che conta (una volta si diceva: “per questo esercizio usiamo quaderno di bella”) e a casa quello che resta o che non decisivo ai fini, per esempio, della valutazione (il “quaderno di brutta”).
Dobbiamo prevedere di impiegare il “quaderno di bella” anche per i compiti casalinghi. Questa constatazione richiede l’impegno e la capacità di distribuire i carichi di lavoro tra aula e casa nel senso che si diceva all’inizio. Non si può scaricare a casa (magari contando sull'”aiutino” dei genitori) quello che non si riesce a fare in classe e neppure si può accondiscendere alle pretese di quelle famiglie che vorrebbero creare un secondo canale di apprendimento gestito a loro piacere e gradimento, con tempi e modalità solo privatistiche.
Ci sarebbero molte altre cose da dire, per esempio, intorno alla pretesa di molti genitori di non avere i compiti nel fine settimana, di non avere interrogazioni il lunedì, di lasciar passare i tre mesi di vacanza senza il fastidio di qualche esercizio o di qualche lettura. Stiamo attenti alle conseguenze della tendenza godereccia del dolce far niente o di fare solo ciò che piace.
Non vorrei essere frainteso: le famiglie hanno il diritto e dovere primario di avere a cuore i figli, ma nella misura in cui li inviano a scuola devono averne rispetto e assicurare collaborazione. In caso contrario si crea soltanto una grande confusione e a farne le spese saranno fatalmente i ragazzi.
(2 – fine)