L’immedesimazione di fronte a un testo letterario è, secondo taluni studiosi, un’evasione dal peso spesso opprimente del reale, dalla disillusione a cui tutto sembra richiamarci, oppure, nell’ambito della psicanalisi, essa è intesa come un «meccanismo di difesa contro il dissolvimento provocato dai fattori soggettivi interni» (Jung).
Ma può esistere un’immedesimazione che travalichi i confini puramente psicologici e intellettuali della persona umana, per abbracciarne l’intera consistenza? Agostino di Ippona, nel IV secolo, aveva parlato di una presenza intimior intimo mei (cfr. Confessioni 3, 6, 11) per indicare in certo modo un’immedesimazione dell’uomo in Dio e di Dio nell’uomo. Oppure nel XII secolo l’abate Bernardo di Chiaravalle, finissimo scrittore, aveva amato identificarsi per esempio con i pastori della notte di Natale, che non furono condotti in presenza di Dio da una dottrina o da una spiritualità, ma dall’avvenimento inconcepibile dell’Incarnazione, in cui si erano immediatamente immedesimati.
Nella lettura di Simone chiamato Pietro (Cantagalli, Siena 2015), uscito dalla penna di padre Mauro Lepori, ora abate generale dell’Ordine cistercense, è possibile rivivere personalmente — nella chiave descritta in Agostino e in Bernardo — l’esperienza dell’apostolo Pietro, in cui a propria volta si immedesima l’autore.
Lo dice bene anche il cardinale Scola, attuale arcivescovo di Milano, che ha firmato la prefazione del volume, laddove afferma che «sei portato dentro i fatti raccontati — in questo caso la vicenda di Simone chiamato Pietro — e li vedi con i tuoi occhi e li senti con il tuo cuore più che se fossi presente». La vicenda del Principe degli Apostoli è narrata con acuta capacità di penetrazione psicologica, nel suo inconfondibile timbro umano, in cui ciascuno di noi può riconoscersi. Così che «questo scritto potrebbe essere letto anche come una (…) introduzione all’antropologia cristiana» (ibid.).
Si pensi a come viene descritto da Lepori, nelle pagine iniziali, l’insorgere della fede come incontro che svela l’uomo a se stesso: «Simone non aveva mai misurato come ora l’importanza della sua vita e della sua libertà»; per lui la sequela di Cristo («era come se avesse seguito il Maestro là dove Egli andava con il suo cuore, non solo con i suoi passi, decisioni, opere») esalta la libertà e ne radicalizza il dramma: «… non avrebbe più potuto andare al fondo di quell’amicizia senza abbracciare il destino oscuro del Maestro». Sempre più chiaramente gli si impone un’evidenza: la verità, la salvezza del suo io è il rapporto con Quell’uomo: «Senza di Lui la sua vita era come uno sguardo fissato sul proprio nulla»; fino alla piena e feconda maturità della propria persona, nel nesso indisgiungibile tra il sì a Cristo e la missione, tanto che Pietro e i suoi «non avevano più un istante per sé: dall’alba al tramonto erano come sospesi tra la misericordia di Cristo e la miseria degli uomini».
Insomma, appare chiaro come sia realmente possibile seguire Pietro, che sempre conduce a Gesù, perché non ha mai permesso alla propria fragilità di staccare il suo cuore dal Signore, persino mentre Lo rinnegava. E proprio questo fa apparire, davanti alla figura di Pietro e di tutti i suoi successori, quanto sembra sproporzionato che tutto abbia la sua consistenza nel legame con la fragilità di una singola persona, scelta per questa missione. Eppure queste pagine, così intense, destano in chi le scrive e in chi le legge, la domanda sincera e umile di una sequela semplice, tanto si è resi certi che seguendo Pietro si segue Cristo.
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Mauro Giuseppe Lepori, Simone chiamato Pietro. Sui passi di un uomo alla sequela di Dio, prefazione di angelo Scola, Cantagalli, Siena 2015