Una metafora indubbiamente azzeccata quella de “La gabbia di vetro” posta a titolo del recente saggio di Nicholas Carr (Raffaello Cortina), per indicare lo schermo dei computer e più in generale le interfacce computerizzate attraverso le quali ormai tutti interagiamo col mondo nelle nostra attività, lavorative e non, e che possono facilmente trasformarsi in gabbie che limitano, invece di liberare, le nostre relazioni con la realtà. Infatti il sottotitolo segnala subito questa preoccupante prospettiva: “Prigionieri dell’automazione”, un’affermazione a metà strada tra la constatazione e la profezia, che richiama, questa volta senza punto interrogativo, il titolo del saggio del 2011 che ha reso famoso l’autore: “Internet ci rende stupidi?”.
Non si tratta però di un testo pessimistico e neppure antitecnologico. È piuttosto una severa analisi critica delle “conseguenze dell’automazione sull’umanità”, dando al termine automazione l’accezione più ampia che si riferisce all’insieme degli strumenti hardware e software che ci permettono di fare “cose che un tempo facevamo da soli”. Il fatto è che oggi questi strumenti non si limitano ad alleviarci le fatiche derivanti da operazioni ripetitive: sono diventati quelle che il padre della cibernetica, il matematico Norbert Wiener, definiva “macchine automatiche che sostituiscono il giudizio”. Tendono a prendere il comando della nostra quotidianità e a rendere drammaticamente concreta l’affermazione, forse troppo ingenua, di un altro grande matematico-filosofo del secolo scorso, Alfred N. Whitehead, che scriveva: “La civiltà progredisce a mano a mano che si va estendendo il numero delle attività importanti che noi riusciamo a compiere senza pensarci”.
Un merito delle analisi di Carr è sicuramente quello di invitare invece a “pensarci” quando utilizziamo uno strumento automatico; per cercare di capire se l’abitudine all’azione strumentale automatizzata deprima o esalti le nostre facoltà e qualità umane. Purtroppo, nella maggior parte dei casi è la prima delle due alternative quella che si verifica; gli esempi portati sono molteplici: dai progettisti che davanti al CAD non trovano più l’ispirazione che invece nasceva mentre tratteggiavano un bozzetto a matita; ai piloti dei jumbo che vedono progressivamente ridursi i loro riflessi e la capacità di reagire prontamente agli imprevisti. Fino alla perdita delle facoltà superiori, come minacciava il tremendo interrogativo dello storico della tecnologia George Dyson: “E se il costo delle macchine pensanti fossero individui che non pensano?”:
Certo, a fronte degli esempi negativi o problematici si potrebbe presentare un nutrito elenco di aspetti positivi legati alla diffusione delle nuove tecnologie che l’autore chiama dell’automazione: basti pensare ai numerosi vantaggi in termini di tempo guadagnato per le procedure amministrative, o più ancora ai sistemi di sicurezza che si possono installare negli impianti industriali e nelle infrastrutture civili; e naturalmente c’è tutta una serie di disastri evitati e di sensibili miglioramenti della qualità della vita.
Ma Carr ne è consapevole e non intende per nulla porsi alla testa di un movimento neo-luddista. È interessante piuttosto la prospettiva più generale nella quale egli inserisce le sue considerazioni critiche. La troviamo ben espressa nell’ultimo capitolo dove, riprendendo un concetto già preannunciato all’inizio, scrive: «La tecnologia ha sempre sfidato l’uomo a pensare a ciò che nella sua vita è importante, a chiedersi che cosa significhi essere umano. L’automazione, espandendo il suo influsso fino alle sfere più intime della nostra esistenza, alza la posta in gioco».
In quest’ottica, vale la pena raccogliere gli spunti che vengono dalle parti più propositive del saggio: quelle dove si fa riferimento all’ergonomia e alla possibilità, supportata da esempi, di “adattare gli strumenti e i luoghi di lavoro alle persone che li usano” e di progettare le macchine perché si “adattino al lavoratore” e non viceversa.
Carr è convinto, e riesce a convincerci, che quella dell’automazione non è una prigionia ineluttabile e che “ci sono modi per rompere la gabbia di vetro senza perdere i tanti vantaggi che ci vengono dai computer”. Può darsi che a tale scopo si debba arrivare a “mettere limiti all’automazione”; e perfino che si arrivi “ad accarezzare un’idea che ha finito per essere considerata impensabile, almeno nei circoli imprenditoriali: dare priorità alle persone sulle macchine”. Come racconta un designer, descrivendo l’introduzione del CAD nei suo studio: “la parte più difficile non era imparare a usare il software. Quello era piuttosto facile. Il difficile veniva al momento di imparare come non usarlo”.
Si tratta allora di imparare – e farlo imparare alle giovani generazioni – a utilizzare le macchine automatiche “come strumenti di esperienza piuttosto che come meri mezzi di produzione”. In ogni caso è chiaro che in gioco c’è qualcosa di rilevante: “in palio c’è la felicità”.