Sul primo esecutivo Amato (giugno 1992-luglio 1993) la campagna terroristica a valenza stragistica di Riina e Provenzano si combinò ad una crisi economica di proporzioni mai viste precedentemente. Di qui il ricorso ad un prelievo diretto — fortunatamente restituito — sui conti correnti degli italiani.
L’altro aspetto a cui si sommò, fu la vicenda della de-penalizzazione dei finanziamenti illeciti ai partiti.
Nel paese prevalse la reazione più facile. Grazie alla campagna condotta dai partiti di opposizione, dalla grande stampa e da movimenti politici di nuovo conio, ad occupare la scena, anche del dibattito politico-istituzionale, fu un desiderio cupo e oscuro di criminalizzazione. A carico di chi, a qualunque titolo, avesse fornito un contributo al mantenimento dei bilanci in deficit o fallimentari delle forze politiche organizzate.
Sotto schiaffo finirono imprenditori, grandi gruppi industriali, esponenti della pubblica amministrazione di qualunque ordine e grado.
Alcuni ne morirono. Non ebbero la forza di resistere all’enormità di accuse senza prove e al comportamento di arrogante cinismo degli inquirenti che di fatto emisero, senza processo, una sentenza definitiva di condanna.
Il disprezzo per le leggi che erano chiamati a fare rispettare suona come un’infamia alla pari della complicità dei loro colleghi che neanche oggi, dopo 25 anni, hanno avuto il coraggio di aprire un’indagine sul comportamento dei magistrati milanesi dell’epoca. Alcuni dei quali ancora spacciano sentenze e querimonie dai giornali e dagli schermi della tv compiacenti.
Tra i suicidi c’è il caso dell’ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari e di un dirigente di partito (anch’egli socialista), prima amministratore locale e poi semplice parlamentare di Brescia, Sergio Moroni.
Ieri era l’anniversario della sua morte. Moroni è caduto vittima dell’enormità e della falsità delle accuse rivoltegli. Poiché si è trattato di un’esperienza condivisa da centinaia di imputati della Procura di Milano, mi pare opportuno ricordare che il deputato del Psi di Brescia non è mai stato sentito dagli inquirenti e non furono iniziate le indagini per cui era necessaria l’autorizzazione a procedere della Camera dei deputati.
E Gabriele Cagliari era stato illuso, preso semplicemente in giro, di essere in predicato per una rapida liberazione.
La loro fine grida vendetta ancora oggi.
Furono, infatti, vittime dell’enorme violenza (il carcere preventivo) con cui la Procura di Milano amministrò un’inchiesta necessaria e difficile. Purtroppo fu condotta con poco o nessun rispetto per le ragioni degli imputati, cioè la loro estraneità ai fatti ad assi addebitati.
In questi giorni, sulla vicenda di Sergio Moroni un socialista della sua stessa pasta e regione, come Ugo Finetti, ha voluto richiamare l’attenzione. Ne ha ripubblicato la lettera comunicata con molta pena (ma anche con troppa fretta di archiviare il lutto) da Giorgio Napolitano alla Camera dei deputati che presiedeva.
Finetti ha ricordato come a questo fatto non sia seguìto nessun dibattito, quasi che il suicidio di chi grida la propria innocenza contro le accuse infondate degli agenti dell’allora marciante Repubblica giudiziaria non equivalga a farne l’orgoglioso e inappuntabile becchino di uno Stato di diritto ormai defunto o in stato di avanzata decomposizione (Cfr. Ugo Finetti, “25 anni dopo. Ricordo di un amico”, Critica Sociale, 2 settembre 2017).
Durante il governo a guida di Giuliano Amato, apparve come un’impressionante domanda di massa la cultura che si espresse nella richiesta di applicare ed eseguire pene detentive. Un sovrano senza scettro né mandato come la cosiddetta opinione pubblica volle orgogliosamente brandire gogne e ghigliottine.
Gli storici sanno che queste armi non sono mai state risposte adeguate per modificare l’ordine delle cose esistenti. E i politici, a cominciare dai parlamentari, sapevano che le procedure per compiere reati penali (di cui accusare i responsabili di finanziamenti illegali ai partiti) esigevano tempi lunghissimi, consentendo agli imputati di farla franca.
Vennero accuratamente demonizzati, anzi vilipesi, le proposte di Amato e del ministro Guardasigilli Giovanni Conso basate su risarcimenti e sanzioni amministrative. Richiedevano tempi di esecuzione molto rapidi, lasciando ai magistrati il compito di accertare l’esistenza di altri maggiori reati. Il governo Amato dovette dimettersi.
Non fu solo una sconfitta politica, ma anzitutto un débâcle culturale. In seno alla sinistra si poté vedere quanto fosse fortemente radicato lo spessore di una domanda fondata sulla limitazione delle libertà personali (e imprenditoriali) attraverso l’irrogazione di severe misure punitive, come le pene detentive.
Si era rivelata dominante un’ossessione a valenza quasi soteriologica per il carcere invece che una passione per la ricerca di provvedimenti che nel tempo più rapido possibile punissero gli imputati condannandoli alla restituzione (maggiorata) dei fondi erogati illegalmente, all’esclusione dalla vita politica e amministrativa fino alla stessa contestazione dei reati penali più gravi come quelli di concussione e corruzione.
Amato e Conso fecero inutilmente presente questa possibilità riservata ai magistrati. Purtroppo questo riformismo venne bollato da Achille Occhetto e da Eugenio Scalfari come scippo di giustizia, semina di cortine fumogene per di fendere le segreterie della Dc, del Psi, del Psdi eccetera.