Un argomento difficile:
Tutti, estimatori o critici, lo riconoscono: il film in due puntate per Rai Uno Paolo VI. Il papa nella tempesta non era un soggetto facile; non lo è per un studio scientifico, figuriamoci per una fiction. Prodotto dalla Lux Vide, scritto da Francesco Arlanch, Maura Nuccetelli e Gianmario Pagano, diretto da Fabrizio Costa, è andato in onda il 30 novembre e 1° dicembre. Due puntate di taglio nettamente differente: insoddisfacente la prima, molto migliore la seconda; anche se entrambe inserite in un unico impianto. E quest’unico impianto è discutibile, perché rimanda ad una lettura politica dell’intera esperienza biografica montiniana, quando invece Paolo VI, come tutti i pontefici, andrebbe letto “dall’interno”, evitando criteri di giudizio che appartengono ad altre categorie e tenendo sempre ben presente che si sta esaminando la vita di un uomo consacrato, che riteneva suo primo dovere portare al mondo la fede in Cristo Gesù. Invece nel film tutta la sua vita è posta sotto il segno “nazional-popolare” del suo rapporto con Aldo Moro. Su questo è necessario aprire una parentesi.
Montini e Aldo Moro:
Il rapporto personale tra Montini e Moro è stato enfatizzato da tanta pubblicistica ma non è al momento documentato, neppure per quanto riguarda gli anni antecedenti il pontificato; negli epistolari privati degli anni giovanili e successivi attualmente pubblicati, sono altri i politici democristiani in rapporti di stretta amicizia con Montini – ad esempio Guido Gonella – e lui non è mai citato. D’altronde, si tratta di due generazioni diverse (il prelato bresciano ha 19 anni più di Moro) e Montini appartiene a quella di De Gasperi; negli anni in cui Moro è stato presidente nazionale della Fuci, dal 1939 al 1942 (e segretario generale del Movimento Laureati nel 1945-’46) il Sostituto non è più ufficialmente alla Federazione, della quale è assistente ecclesiastico del circolo romano dal dicembre 1923 all’ottobre 1925, quando viene nominato assistente ecclesiastico nazionale, fino al marzo 1933. Dunque, negli anni fucini di Moro, Montini è molto impegnato su altri versanti e al momento non sono noti carteggi privati tra i due. Durante l’episcopato milanese è ricevuto solo due volte in udienza personale e le poche lettere scambiate con l’arcivescovo riguardano singole questioni legate ai ministeri che il politico ricopriva (giustizia, istruzione). La definizione di Moro nella lettera del papa alle Brigate Rosse (e nella preghiera in S. Giovanni in Laterano) quale «amico di studi» riconosce una importante matrice comune e un’indubbia consonanza ideale; non permette però di annoverare Moro nella cerchia di amici personali, secondo la concezione molto elevata di amicizia che Montini sviluppa nella sua esistenza e che prevede continui scambi spirituali e intellettuali. Nello stesso tempo bisogna aggiungere che senz’altro Paolo VI, nel 1978, avrebbe agito con pari determinazione anche si fosse trattato di un altro esponente democristiano a subire tale triste sorte. Questi rilievi non vogliono sminuire alcunché, solo richiamare alla necessità di evitare affermazioni improprie, in assenza di documentazione adeguata.
Nel film si dà invece per scontato un rapporto di paternità diretto che al momento non è storicamente supportato e certamente non fu così stretto: «Aldo, figlio mio», dice il papa nei primissimi minuti, apprendendo la notizia del sequestro; e la moglie aggiunge, leggendo la lettera di partecipazione di Paolo VI: «per Aldo è come un padre». Vi è poi una scena storicamente infondata: don Montini sta parlando ai fucini e Moro gli rivolge la parola e si presenta, è di passaggio, ha appena incominciato giurisprudenza a Bari; quindi dovremmo essere nel 1935 (Moro è nato nel 1916). Ma all’epoca Montini non può più insegnare ai fucini. Vi è poi un duplice passaggio di consegne tra i due, che ha per sfondo il panorama di Roma (e virtualmente dell’Italia intera): quando Montini convince Moro ad impegnarsi politicamente aggiungendo: «Coraggio, Aldo, non ti lascio solo»; e a sua volta Moro, decenni più tardi, lo convince ad accettare l’idea di divenire papa con le parole: «Non abbia paura, non la lasceremo solo». In seguito, Moro chiede a Paolo VI l’autorizzazione a varare il centrosinistra nel Paese e il papa gli risponde che non gli serve il suo permesso, deve essere libero. Alla fine del film, il vecchio papa riemerge dal lunghissimo flash-back e dice al segretario: «Durante la meditazione ho fatto un lungo viaggio ed ora vedo chiaro, scriverò la lettera alle Brigate Rosse», confermando quest’ottica politica di revisione della sua intera esistenza. Storicamente, bisogna poi aggiungere che la vexata quaestio della nomina di Montini ad arcivescovo di Milano, nel film viene attribuita a questioni politiche: cioè il dissidio con Pio XII sul ruolo della DC e l’opposizione alla “legge truffa” del 1952; ipotesi plausibile, insieme ad altre, ma ancora tutta da verificare.
Libertà. In che senso?:
Il tema della libertà è pure una chiave di lettura di tutta la biografia che si impone fin dalle prime scene, nel paragone tra la tragedia di Moro e quella di Matteotti, 54 anni prima: «Oggi qui ci hanno portato via la libertà», commenta il giovane don Montini. In realtà non abbiamo nessuno scritto suo sul delitto Matteotti, ma solo una lettera ai familiari del 17 giugno 1924 con un’unica frase in riferimento alla difficile situazione italiana: «Preghiamo per il nostro povero paese».
La libertà su cui più il film insiste è quella dei fedeli di fronte al fascismo, di cui don Battista parla con il padre, deputato aventiniano; e che ritiene di non poter più difendere dopo la stipula dei Patti Lateranensi. È quella dell’assioma «Non c’è religione senza libertà», pronunciata dopo l’incursione fascista alla FUCI; quella nel cui nome egli difende il voto alla Democrazia Cristiana davanti ai curiali; e per la quale – confida ancora a Moro, decenni dopo – è disposto a rischiare lasciando liberi di parlare tutti i padri conciliari. La libertà è infine quella illusoria per cui si vorrebbe che la Chiesa approvasse le pratiche anticoncezionali. Insomma, come dice Paolo VI a Matteo, il ragazzo che ha deciso di scegliere la lotta armata: «Questo papa ha deciso da sempre di fidarsi della libertà degli uomini. Dio se vorrà darà i frutti di questa mia fiducia».
Il fascismo:
Evidentemente, nella prima puntata, come si è detto, si parla essenzialmente della libertà dal fascismo; e se è certo che Montini è antifascista per formazione familiare e convinzione personale, sicuramente egli non entra in Segreteria di Stato per combattere il regime, come appare nel film. Come scrive Mirella Poggialini in “Avvenire” del 2 dicembre: «Cronologie forzate, personaggi inventati, situazioni accentuate volutamente per delineare un carattere di progressismo anticipatore hanno in qualche misura tradito l’effetto complessivo di un non facile ritratto». Anche l’incursione violenta alla FUCI fa parte di queste forzature: a parte la collocazione (è posta dopo l’incontro con Moro, ma avviene il 30 maggio 1931), è vero che Montini prega durante i fatti, ma non che viene picchiato. Così lui stesso descrive, in una lettera ai familiari, la perquisizione: «L’intimazione avvenne verso le due e mezzo, quest’oggi, nel nostro povero, misero ufficio, dove s’era tanto lavorato. Eravamo Righetti [presidente nazionale] e io. […] Rovistarono ogni cosa per una perquisizione di polizia: ma che cosa possono trovare di cattivo fra le nostre povere carte? […] Il Palazzo era pieno di agenti di questura e di carabinieri; ma da dieci giorni c’eravamo quasi abituati a questa strana compagnia. […] Nessuno smarrimento d’animo; ma quanta pena! quale umiliazione per il nostro paese!». E in un appunto, alla stessa data, riferisce: «Io stetti seduto durante l’ispezione agli archivi della Federazione dicendo il Breviario e guardando il quadretto di S. Tarcisio appeso sull’uscio d’entrata».
Pregi e difetti:
A questo punto, prima di continuare elencando le dissonanze sul piano storico, è bene precisare (come è stato fatto notare da don Umberto Dell’Orto, storico del Seminario di Venegono, che ha curato un carteggio montiniano del periodo episcopale edito dalla San Paolo) che con questo film ci troviamo volutamente davanti a diverse ricostruzioni fantasiose, che servono a rendere godibile la pellicola, ma che hanno la funzione di indirizzare verso la realtà storica. Per cui ciò che conta è che l’obiettivo degli autori è probabilmente quello di un’ “operazione simpatia” nei confronti di Paolo VI, con i pregi e i limiti di una tale operazione. Il pregio principale è quello di dare la possibilità all’odierna generazione di avvicinarsi a questo papa, per conoscerlo meglio e completamente. La simpatia, infatti, è un importante presupposto per avvicinare e conoscere una persona. È evidente, poi, come dice la Poggialini, che nel genere fiction popolare «la semplificazione consente la massima comprensione ma evita l’approfondimento e non consente le sfumature. Delinea soltanto elementi emozionali evitando l’analisi». Ma la connotazione dell’utenza giustifica in qualche misura le approssimazioni storiche (tranne quella della lettura politicizzata globale, soprattutto nella prima puntata). Quindi sembra mal collocata la stroncatura di Aldo Grasso: «al più, un bignamino illustrato, la solita celebrazione all’italiana […] ennesima agiografia priva del batticuore della ricerca». Il pubblico più accorto e interessato, insoddisfatto dal film, potrà andare a rivedere Il papa dimenticato, bel documentario de La grande storia, curato da Luigi Bizzarri per RAI tre alcuni anni fa.
Leggerezze storiche:
Detto questo, in questa sede è pur legittimo richiamare le approssimazioni storiche. A partire dal rapporto di Montini con i pontefici, che senz’altro non è mai stato così insolente, quasi aggressivo a tratti: assolutamente inverosimile il veto posto a Pio XI sui Patti Lateranensi. In merito a questi accordi, il giudizio di Montini è certamente prudente, soprattutto rispetto all’entusiasmo di tanta parte del mondo cattolico dell’epoca: se è positivo il fatto che essi restituiscono ai fedeli il sacrosanto diritto di partecipare attivamente alla vita della Nazione, bisogna a tutti i costi evitare compromissioni soprattutto ideali con il regime e invece, come raccomanda in una circolare della Fuci, rafforzare le energie spirituali. Da arcivescovo e papa, la considerazione dei fatti storici successivi lo porterà ad una posizione di pieno apprezzamento dell’accordo. E per quanto riguarda il legame con Pio XII, Montini, anche da Sostituto, non si permetteva di dire a papa Pacelli quello che doveva fare, aveva un senso di venerazione della sua autorità di vicario di Cristo.
D’altra parte, anche la connotazione del carattere del Nostro non è azzeccata: la declamazione di Maritain ai fucini, in piedi sul muretto, stona parecchio in un’indole riservata come la sua. E il giovane Montini non era affatto «ribelle», come nel film dice il padre Giorgio al figlio, cui era stato proposto l’ingresso in Segreteria di Stato: «non sanno quanto puoi essere ribelle». Anzi, Montini-Paolo VI ha sempre cercato di vivere in obbedienza i cambiamenti imposti dall’alto al suo destino, piegandovi i desideri personali.
Personaggi, fra macchiette e prezzemolo:
Alcuni personaggi, poi, sono troppo presenti nella narrazione, come il card. Tisserant; altri diventano macchiette, come il segretario personale don Pasquale Macchi (che il neo arcivescovo non conosce certo il giorno dell’arrivo a Milano…), Giovanni XXIII e il grande liturgista e suo direttore spirituale p. Bevilacqua; anche la vicenda Mazzolari è banalizzata secondo triti clichées. Tra l’altro, il famoso incontro con Giovanni XXIII è del febbraio 1959 e non fu a quella data e in quel modo che il papa annunciò il concilio, ma il 25 gennaio ai cardinali, nella basilica di S. Paolo fuori le Mura.
Come appunto meno importante, precisiamo che Montini non riceve la notizia della morte di Pio XI, ma in realtà è il primo ad essere chiamato, alle 4 del mattino del 10 febbraio 1939, al capezzale del morente e assiste all’estrema unzione e alla sua morte. E sia la notizia della morte di Pio XII che quella dell’elezione di Giovanni XXIII le riceve mentre si trova in visita pastorale in diocesi di Milano e non nelle circostanze ricordate dal film.
Il taglio dato agli otto anni di episcopato milanese meriterebbe troppe rettifiche, soprattutto perché sbilanciato solo sul versante sociale e completamente ignaro delle vere priorità dell’arcivescovo, e non è il caso. Precisiamo almeno che la Missione straordinaria del 1957 non fu proposta da mons. Montini ai parroci, ma viceversa; che quella alla Magneti Marelli, avvenuta il 29 gennaio 1955, non fu la prima visita al mondo operaio di Sesto San Giovanni (che avvenne invece il giorno 9); che il famoso invito ad edificare la «civiltà dell’amore» è rivolto da Paolo VI a conclusione dell’Anno Santo, la notte di Natale 1975, dopo la chiusura dei battenti della Porta Santa (anche se l’espressione si trova già nel maggio di quell’anno) e non durante l’episcopato. Virtualmente, tuttavia, è vero che il suo magistero e la sua pastorale episcopale e pontificale possono unificarsi sotto questa espressione, come fa il film, che la cita altre cinque volte.
II puntata, si va meglio ma quanti errori sul Concilio!:
Dicevamo che la seconda puntata si stacca decisamente dalla prima, in senso positivo. Solo la visione del Concilio non è accettabile, sia pure tenendo presenti le necessarie semplificazioni e la difficoltà a rendere le differenziazioni tra tremila padri, qui concentrate su Tisserant e Suenens. Corretto l’intervento di mediazione montiniano, che cerca di ottenere l’unanimità sui testi approvati, secondo il principio che è necessario convincere il più possibile tutti, non vincere l’uno contro l’altro.
E non è felice la figura di Matteo (in cui è immediato leggere la vicenda di Alessio Casimirri, figlio di Luciano, dell’Ufficio stampa della S. Sede, conosciuto da Montini-Paolo VI), per quanto alla fine si riscatti.
Comunque, nella seconda parte, si evince un’insistenza sulla spiritualità personale del pontefice, spesso colto in preghiera, degna di lode: molto belli i momenti nel Cenacolo a Gerusalemme, quando dice: «Sei risorto, non sei qui, sei risorto»; quando guarda alla TV il video (storico originale) della guerra in Vietnam e poi, in ginocchio, prega: «Fino a quando lo permetterai, fino a quando?»; o il coraggioso inserto della riflessione-preghiera sul diavolo: «Fumo di Satana, demonio essere vivo, terribile realtà, non ci si fida più della tua Chiesa; nel cuore è entrato il dubbio: pensavamo che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole e invece è tutto buio. Perché Dio, perché?».
Alcuni accenni spirituali si trovano anche nella prima puntata: quando il Segretario di Stato Pacelli chiede: «Cosa faresti con i russi alle porte?», Montini risponde: «Direi messa come ogni mattina»; o, a Milano, ribatte a don Leone, che vuole fare il prete operaio: «la Chiesa ha bisogno non di preti che si improvvisino operai ma di preti meno improvvisati». Infine, Montini incoraggia La Pira, Moro e Fanfani a prendersi cura dell’Italia rimanendo cristiani e, davanti al papa, difende il voto unico alla DC, «che ha fede, capacità e libertà».
Il pontificato:
Ma è soprattutto da papa che Montini, nel film, viene accostato dalla telecamera come uomo di fede e di missione, con le braccia aperte e le mani offerte: e ci sono diversi episodi di carità (dopo quello milanese dell’offerta di parte dell’eredità di famiglia per la costruzione di un quartiere popolare); alcuni notissimi (il dono della tiara, quello dell’auto a Madre Teresa); altri inventati, ma emblema di una pratica della carità personale che è reale, anche se poco conosciuta: la consolazione del contadino bresciano rimasto vedovo con cinque figli; o la visita al vecchio arabo cristiano, sulla falsariga degli episodi evangelici. D’altronde, anche le due grandi encicliche Populorum progressio e Humanae vitae vengono presentate come due esempi di amore: la prima fra i popoli e la seconda fra uomo e donna. E la provocazione di Tisserant: «Sa perché madre Teresa è così convincente? perché lei non parla d’amore, ama» serve per presentare, subito dopo, la visita a Regina Coeli e all’ospedale Bambin Gesù.
Dunque, risulta convincente la visione spirituale di alcuni avvenimenti occorsi durante il pontificato, nella chiave di lettura del «segreto» che ha guidato questa esistenza così straordinaria e che Paolo VI, sia pure in un momento in cui viene aspramente criticato, confida a Matteo: « Ho sempre cercato di seguire in coscienza quella che ho creduto essere la volontà del Signore».
Tante potrebbero essere le citazioni, sotto i due poli della croce e della gioia cristiana, che sono effettivamente due cardini del pontificato. Del primo, è esempio l’alterarsi del pontefice quando vede in TV le conseguenze della strage di Piazza Fontana, nel dicembre 1969, e – al segretario che gli ricorda che i frutti della Missione cittadina, in cui l’arcivescovo si era tanto impegnato, arriveranno quando Dio vorrà – replica seccato: «Lo so! anche un uomo di fede può lamentarsi, ricorda Geremia e Giobbe?» e poi si scusa. Subito dopo, Paolo VI ha una visione terrificante di tutti i suoi avversari, che lo buttano a terra, e si sente sollevare dal vecchio arabo che gli indica le croci sul Calvario. E già Tisserant, quando gli aveva prospettato l’elezione a pontefice, aveva detto che ciò significava prendere la croce e andare. Di fronte poi alla bagarre in Concilio tra progressisti e tradizionalisti, il papa interviene invitando a pregare e cercare l’unità in Cristo; più avanti ripeterà che solo Dio può donare questa unità. E quando, finito il Concilio, l’onnipresente Tisserant gli prospetta la difficoltà di rendere effettivi gli aggiornamenti, Paolo VI si affida allo Spirito Santo. Da questo punto di vista è anche molto significativo il richiamo, prima del viaggio in India, alla «nuova effusione dello spirito di Dio» senza la quale «per l’umanità non c’è salvezza»; infatti, se questo aspetto è importante in tutta la vita del Nostro, gli ultimi anni del pontificato si distinguono proprio per l’accentuazione della dimensione mistico-carismatica.
Lefebvre e difficoltà spirituali:
Anche le difficoltà montiniane sono viste dal punto di vista spirituale; ad esempio la bella immagine, davanti al vescovo ribelle Lefebvre, della tradizione che «non è solo ripetere sempre le stesse cose: il cristianesimo è un albero sempre in primavera, sulla via di nuovi fiori e nuovi frutti». I momenti di sconforto personale vengono rievocati con espressioni che effettivamente Paolo VI usò, anche se non in quelle circostanze; ad esempio l’amara conclusione dopo il drammatico incontro con Lefebvre: «Avevamo sperato di fare della Chiesa il sale della nuova civiltà e invece il sale sta perdendo il suo sapore». Veritiera anche la scena del discorso davanti ai cardinali, negli anni ’70, quando manifesta tutti gli aspetti della crisi interna alla Chiesa e chiede: «Cosa deve fare il papa?», suscitando un mormorio tra i presenti: ma non bisogna derivarne l’idea che Paolo VI fosse incerto sul ruolo petrino. E infatti, davanti alle critiche di Suenens, che ritiene che Humanae vitae sia il frutto delle pressioni curiali, Montini, piccato, commenta: «Insomma non sarei in grado di fare il papa».
Le encicliche:
Giustissimo citare anche quella che per Paolo VI fu la croce più grande, ossia le defezioni sacerdotali e soprattutto richiamare anche in questo caso l’atteggiamento di fede-fiducia del papa: «Il Signore non ci chiede di avere successo, oggi tutti vogliono successo, ci chiede solo di essergli fedeli. È lui a dare i frutti quando lo ritiene opportuno». Come pure il riferimento alla Sacerdotalis caelibatus, attraverso la finzione del colloquio con don Leone, il quale vuole lasciare l’abito per la lotta di classe, ma anche per l’amore di una donna; e dice: «Se la Chiesa ci permettesse di sposarci…». Paolo VI si altera: «Adesso non addossare alla Chiesa colpe non sue, tu amavi la Chiesa, le avevi giurato fedeltà e adesso la accusi di non accettare che tu la tradisca?».
Ma torniamo alla Humanae vitae, che rappresenta un caso riuscito di trasposizione dalle scene di fantasia alla realtà effettuale. Le parole del papa sono molto semplificate ma esprimono le diverse sfaccettature del problema; di fronte al parere favorevole agli anticoncezionali della maggioranza della Commissione di studio sui problemi della popolazione, della famiglia e della natalità (e non entriamo nella questione perché sarebbe discorso complesso), Paolo VI commenta: «Certo, sterilizzare i poveri aiuta i ricchi a sentirsi meno in colpa. D’altra parte io capisco molto bene anche le difficoltà autentiche di tante famiglie». E afferma di aver bisogno di tempo per pregare, prima di dare il suo responso, incoraggiando la Commissione a non aggirare gli ostacoli, che sono un dono. Durante il colloquio con la ex fucina Maria – che a molti è piaciuto, per il significato simbolico di attenzione del papa alle donne e agli sposi, con le loro difficoltà – dice: «Parlerò della dignità dell’amore vero tra gli sposi». E alle obiezioni di Suenens, una volta pronta la Humanae vitae, risponde con chiarezza: «Non ho scritto questa enciclica per parlare di sesso ma per parlare di amore e vita dell’uomo e della donna; mi son chiesto che valore abbiano l’amore e la vita, l’uomo e la donna; che ne sarà, in questa civiltà dell’amore, della vita dell’uomo e della donna. Le pratiche anticoncezionali non ci faranno perdere il rispetto della donna? [segue la parte sulla libertà illusoria citata sopra] la perdita del significato di diventare padri e madri? Può dirsi vero amore quello che si chiude completamente alla trasmissione della vita? Che cos’è la vita se non il più grande dono che Dio continua a farci? […] Il papa non può dire che è giusto ciò che giusto non è». Ecco, i contenuti fondamentali ci sono tutti.
La politica:
Anche la Ostpolitik, che tanto caratterizzò il pontificato (il card. Casaroli andava citato più per quello che per le correzioni nella lettera alle Brigate Rosse) si può intuire attraverso gli incontri con mons. Wojtyla (il primo però serve per fare capire al pubblico che Montini, nel 1923, ha trascorso alcuni mesi alla nunziatura di Varsavia). In uno di questi, richiesto di un consiglio sul comunismo, Paolo VI risponde: «Anni fa le avrei detto la linea dura, ora dico la strategia della pazienza e di non aver mai paura del dialogo». Più avanti sarà il cardinale polacco a confortarlo, di fronte ai problemi che il papa incontra in Occidente, ripetendogli che: «Il dialogo richiede forza, pazienza e perseveranza. Me l’ha insegnato Lei».
E bisogna dire che la fuorviante interpretazione politica globale, alla fine è stemperata dalle parole conclusive del film e dalla circostanza in cui si collocano. Si tratta delle famose espressioni effettivamente pronunciate nel quindicesimo anniversario di incoronazione, il 29 giugno 1978: «Anche noi, come Paolo, sentiamo di poter dire: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”». Esse, nel film, rappresentano il sottofondo durante un abbraccio di tanti ragazzi al pontefice, il 20 maggio 1978, anniversario dell’ordinazione sacerdotale: data in cui effettivamente il papa volle ricevere 12.000 ragazzi dell’Azione cattolica italiana, che definì «ragazzi del tempo nuovo», invitandoli alla testimonianza di amore, gioia e pace, doni dello Spirito Santo. Evidentemente l’immagine rimanda sia alla grande attenzione di Montini al mondo giovanile, in tutta la sua vita (da papa li inviterà esplicitamente alla funzione della domenica delle palme), sia all’esortazione apostolica Gaudete in Domino, del 1975, l’unico documento ufficiale di un pontefice sulla gioia cristiana.
Peccato non aver trovato accenni alla cultura e alla straordinaria sensibilità artistica del Nostro: peraltro, i riferimenti inseriti erano già troppo abbondanti.
Conclusioni:
Concludendo, la positività dell’opera è legata ad una visione interna al genere in cui si colloca e al pubblico cui si rivolge, il quale pensiamo abbia potuto cogliere l’appassionato amore per la Chiesa, l’uomo e il mondo di Montini-Paolo VI e la sua profonda spiritualità.
Che poi gli italiani, pur avendo premiato abbastanza la seconda puntata – che ha avuto uno share del 19.57 – le abbiano comunque preferito, per quanto di poco, l’Isola dei famosi alla sua sesta edizione, la dice lunga sul cammino che è ancora necessario compiere per rispondere efficacemente a quel dramma della nostra epoca che, come dice l’Evangelii nuntiandi, è la rottura tra Vangelo e cultura.