L’Italia è maglia nera nella comparazione internazionale delle competenze – alfabetiche, matematiche e di problem solving in contesti ad alta densità tecnologica – della popolazione attiva dei singoli Paesi Ocse. L’impietosa fotografia di quell’indagine, rilanciata dai media nei giorni scorsi, non riguarda solo i lavoratori e i disoccupati ultracinquantenni, ma anche le classi di età appena uscite dalla scuola. Approfondendo il confronto con altri Paesi, come quelli europei di cui conosciamo meglio i sistemi di istruzione, si rileva che i più alti livelli di competenze e di scolarità della popolazione attiva si accompagnano solitamente a un peso rilevante della formazione professionale nel ciclo secondario superiore e nell’istruzione superiore.
Questi sistemi forti sono diversi tra di loro e più o meno articolati per metodologie e luoghi di formazione, poiché non esistono solo il modello scolastico e il sistema duale tedesco. I risultati, però, sono sempre migliori di quelli italiani. È evidente che il grado di orientamento al lavoro – esteso a tutto il sistema dell’istruzione e inteso come pratica professionale di valore culturale e sociale per tutti i mestieri e, quindi, luogo di esercizio e di sviluppo di sapere e di cittadinanza oltre che di economia sana – contribuisce a fare la differenza anche in termini di competenze personali, sociali e culturali.
Per tutti basti l’esempio di un Paese – seppure non il migliore della classifica Ocse – con il quale tutti in Europa sono obbligati a confrontarsi in diversi campi, la Germania, dove più del 60% di tutte le classi di età della popolazione attiva ha raggiunto, attraverso la formazione professionale nel sistema duale, livelli Isced di scolarità e di qualificazione professionale da 3b a 4b, una gamma di livelli estesa da poco meno della maturità tecnica a diplomi di istruzione tecnica superiore. Ma anche alcune università tedesche, assieme a grandi imprese, propongono corsi di laurea delle aree tecniche ed economiche nel sistema duale. Il risultato: la percentuale della popolazione tedesca attiva delle fasce di età 25-34 e 55-65 anni sprovvista di titolo secondario superiore è per entrambi i gruppi appena sopra al 10%. In Italia la stessa condizione riguarda quasi il 30% della fascia di età più bassa e più del 70% di quella più alta.
Al di là del sistema duale tedesco fin troppo mitizzato, anche dal confronto con modelli di istruzione di altri Paesi europei emerge che la formazione professionale non è considerata una scuola di serie B, destinata “a chi non ha voglia di andare alla scuola vera, preferendo andare presto a lavorare”. Essa, piuttosto, è uno dei pilastri dell’istruzione, ovunque la si organizzi a seconda dell’architettura dei diversi sistemi: nella scuola, in altre istituzioni formative, in azienda. Per converso, vale la pena notare che in quei Paesi i titoli dell’istruzione – secondaria, terziaria e universitaria – sono intesi in modo forte come certificazione di qualificazione professionale.
Insisto sull’idea della formazione professionale come uno dei pilastri del sistema di istruzione perché il decreto scuola, che pure, dopo anni di tagli, lancia un segnale positivo di ritorno agli investimenti, ignora quell’idea e, più specificamente, dimentica il sistema ordinamentale dell’Iefp, al quale − accanto ai sistemi regionali di formazione professionale, i pochi rimasti, alcuni, pochissimi per la verità, non proprio efficienti − partecipano in misura rilevante anche gli istituti professionali di Stato.
Esso dimentica anche i poli formativi che in alcune regioni si stanno sviluppando, esperienza promettente di sinergia tra imprese, istruzione e formazione professionale. In fondo, esso prescinde dalla questione culturale, prima che funzionale, della relazione scuola-lavoro-economia-società. Si doveva osare di più. La crisi, che colpisce drammaticamente non solo l’occupazione giovanile, ma anche la stessa natura del lavoro e le premesse di un’economia di produzione reale e di benessere sociale, meriterebbe visioni strategiche dell’istruzione più coraggiose e più lungimiranti. Coraggio e lungimiranza richiederebbero il superamento di un’autoreferenziale identificazione tra istruzione e scuola statale, a favore dell’inclusione e dello sviluppo, nel quadro dell’istruzione, nazionale e/o decentrato, di una formazione professionale che si esprime al meglio nella sinergia di responsabilità e intelligenza degli enti locali, di propensione all’investimento sul capitale umano di imprese e di competente protagonismo di organizzazioni sociali.
Pur senza ottuse presunzioni, le parole precedenti vogliono descrivere, non in antagonismo con gli istituti professionali di Stato, i migliori sistemi regionali di formazione professionale, sopravvissuti all’incuria delle politiche e non solo, minacciati da ulteriori tagli nell’indifferenza generale, come se questo patrimonio potesse essere sostituito da una burocratica estensione dell’azione degli istituti professionali di stato. Un esempio banale, ma emblematico della superficiale indifferenza, è il trattamento, ai fini del Patto di stabilità, dei diversi finanziamenti pubblici allo stesso sistema ordinamentale: i finanziamenti regionali sono subordinati al Patto, la spesa pubblica degli istituti professionali è libera da questo vincolo.
Non crediamo che la formazione professionale italiana sia vittima di un diabolico disegno ideologico. Temiamo di più gli effetti di una pigrizia e di una superficialità politica e intellettuale. E non chiediamo di proteggere una specie a rischio di estinzione. Si tratta piuttosto di dare valore a una risorsa per lo sviluppo, a beneficio dell’intero sistema dell’istruzione, dall’Iefp all’istruzione tecnica superiore (Its) e anche agli ordinamenti tecnici e liceali, e più direttamente degli istituti professionali di Stato, compagni di strada in quella che, per il momento, è la quasi avventura volontaristica dell’Iefp. Si tratta anche di dare seguito all’istituzione dell’Iefp, applicata solo in alcune Regioni, soprattutto del Nord, altrove malamente applicata o del tutto disattesa.
Infine lo Stato non può mancare al dovere di finanziare il raggiungimento dell’obbligo scolastico nella formazione professionale, anche perché il 50% dei suoi iscritti sono fuggiti o sono stati espulsi dalla scuola, mentre nonostante tutto la formazione professionale costa meno degli istituti professionali.
Senza il contributo decisivo della formazione professionale al contrasto dell’abbandono scolastico, resteremmo, perché lo siamo ancora, agli ultimi posti nell’Ue, ma con tassi di abbandono ben più elevati. Forse non è un caso che la geografia dei tassi regionali di abbandono scolastico coincida abbastanza con la geografia dei sistemi di formazione professionale.
Sono i numeri delle Regioni in funziona l’Iefp a darci ragione, e non sono solo quelli del recupero dell’abbandono scolastico. La domanda di formazione professionale da parte dei giovani e delle famiglie cresce rapidamente: gli iscritti all’Iefp sono passati dai 23.500 del 2003/2004 agli oltre 280.000 del 2012/2013 dei quali solo 130.000 − per mancanza di finanziamenti − nelle strutture di formazione professionale accreditate dalle Regioni, a fronte di un numero di richieste molto più elevato soprattutto nel Nord. È probabile che gli esclusi siano andati ad aumentare la già alta percentuale degli abbandoni scolastici. Il 16,5% degli iscritti a livello nazionale sono stranieri, più del doppio nelle concentrazioni del Nord, provenienti non solo dall’abbandono scolastico, poiché molti giovani stranieri nemmeno tentano l’accesso alla scuola superiore. Molti settori dell’economia del Nord dovranno affidarsi a loro in futuro.
Sarebbe fuorviante dedurre da questi numeri che la formazione è “buona” perché si occupa dei più disgraziati. Ne è capace, non solo per la sua vocazione sociale, ma soprattutto perché sa essere eccellente per tutti i giovani interessati a percorsi professionali qualificati.
Per questo, dopo l’insistenza sulla dimensione di istruzione generale della formazione professionale – perché è vero che essa sa insegnare a leggere, scrivere, far di conto e cavarsela nel lavoro e nella vita anche a chi non l’ha imparato a scuola – bisogna evidenziare gli esiti occupazionali, anche se della formazione non abbiamo una visione obbligatoriamente lavorista. Basta dire che, a un anno dalla qualifica, lavora il 70% dei giovani della formazione professionale e ben l’85%, dopo due anni, quasi tutti con una occupazione molto coerente con la qualifica raggiunta. Sono risultati vicini a quelli del sistema duale in Germania. Di questi tempi è molto.
La formazione professionale intende far sentire la sua voce in tutte le sedi del dibattito che accompagna la conversione in legge del decreto scuola. Al di là di questa vicenda contingente, questo è il momento, anche in vista degli sviluppi della programmazione europea 2014-2010, di un dialogo aperto tra ministero dell’Istruzione, ministero del Lavoro, Regioni, partner sociali e enti di formazione professionale. Lo diciamo con rispetto delle proporzioni degli attori in campo, ma consapevoli di avere qualcosa da dire.