Exit Raimondi. La didascalia drammaturgica che indica l’uscita di scena di un personaggio, adottata come formula di un commiato tanto più definitivo, credo gli sarebbe andata a genio. L’avrebbe apprezzata come studioso di storia del teatro, oltre che come interprete acutissimo della retorica barocca, che molto spazio riserva, nelle sue inesauribili variazioni, al rapporto analogico tra vita e palcoscenico, al teatro come metafora dell’esistenza. L’avrebbe apprezzata, sono sicuro, sentendovi l’eco di un titolo che certamente doveva essergli caro, premesso da Roberto Longhi al suo tombeau per Giorgio Morandi (appunto, Exit Morandi). Lasciare il praticabile del mondo, dopo aver fatta la propria parte. Sì, l’immagine gli sarebbe piaciuta. Perché poi il dramma continua, naturalmente. Ma chi resta avverte l’onta non risarcibile di un’assenza che rende d’improvviso più fioca la scena, più arrischiata la trama.
La luce di Ezio Raimondi si è spenta martedì mattina; oggi avrebbe compiuto novant’anni. Ieri ci siamo separati da lui per sempre. Più di ogni altra cosa, durante le cerimonie dell’ultimo saluto, colpiva la presenza, coesa e plurale, di tante età, di tante vite diverse, di tante traiettorie professionali ed esistenziali, riunite lì, sullo spiazzo del quadriportico dell’Archiginnasio, davanti alla cappella dei Bulgari, e poi sul sagrato della basilica di San Domenico, da un senso comune di gratitudine, ma anche di sbigottimento.
Mi sono chiesto perché. L’età era avanzata, le condizioni fisiche ormai precarie, la salute negli ultimi tempi fiaccata al punto di ridurne la voce a un soffio sempre più fievole; da oltre un anno non compariva in pubblico e tutti sapevamo che non sarebbe avvenuto più. Perché, allora, la percezione di uno strappo così doloroso, di un vuoto così assoluto, condivisa da tutti, ex studenti, allievi, colleghi giovani e vecchi, amici da sempre e collaboratori degli ultimi anni – uno strappo e un vuoto vissuti da ciascuno, certo, con intensità diversa ma per tutti della stessa grana, che si coglieva nelle facce tese e pensose?
A pochi uomini di studio sembrerebbe attagliarsi altrettanto bene l’immagine di comodo di una vita spesa tra i libri. Forse, dopo Croce, il più grande lettore del nostro Novecento. Tutto vero. Ma basta rileggere, per non addentrarsi troppo nelle pieghe della sua genialità critica, le pagine dedicate negli ultimi anni proprio ai libri e alla lettura, da Un’etica del lettore all’ultimo, autobiografico, Le voci dei libri, per capire che la sua ricerca, dai gialli divorati da ragazzo a Céline o a Manzoni, sempre è stata ricerca dell’uomo, della vita dietro e dentro e attraverso il libro; che la sua libridine, come gli si diceva scherzosamente, è sempre stato desiderio di incontri, molto più che avidità di sapere. È questa verità minima e decisiva che spiega tutto.
E la si coglie nei suoi scritti, anche da chi non l’abbia conosciuto, ma sappia accoglierne l’invito a non fermarsi mai alla finitezza della parola, per incantevole o persuasiva che sia, ma a girarle intorno per farla vivere di vita nuova ogni volta, come accade quando si vuole davvero conoscere una persona perché la si ama.
Per chi poi lo ha conosciuto e frequentato, la storia è un’altra ancora. O meglio, è la stessa, ma con un di più indescrivibile di risonanze emotive che soltanto gli anni, il ripensamento, talvolta i sogni del passato permettono di ridurre a chiarezza definitiva. Paradossalmente, la sua mancanza, adesso, aiuta. Ora capisco bene: lo strappo è così doloroso, il vuoto così fisico, perché lui ci ha amati. Nei suoi modi distanti e talvolta cerimoniosi, nel suo parlare solo di libri, in un riserbo e in un pudore assoluti, tutti noi, studenti, allievi, giovani e sempre meno giovani studiosi, Raimondi ci ha amati. Questo, mi sembra, ci dà il senso vero del suo magistero, mettere a disposizione, come sulle tavole di un convito, non già il suo sapere, ma la parte più preziosa di sé: la passione di una ricerca mai finita.