Il messaggio del Santo Padre al Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, in occasione della solenne celebrazione del 750° anniversario della nascita di Dante tenutasi presso il Senato della Repubblica Italiana, è, in primo luogo, un solenne riconoscimento del valore della poesia. Della letteratura e dell’arte. Come dimensione propizia a quell’esperienza di riscatto e conversione, e dunque di liberazione, da cui ogni uomo, quotidianamente, è atteso. Ogni uomo: come singolo individuo, e come voce di un’assemblea di fratelli che abbraccia l’umanità intera.
La poesia c’entra, si potrebbe volgarmente sintetizzare. In questo tempo di sfide e di tensioni, di angosce e di paure, la letteratura è direttamente interpellata dal Sommo Pontefice non come orpello o come consolazione, bensì quale testimonianza profetica: come certificato dell’orizzonte proprio di ogni autentico umanesimo. Per essere, innanzi tutto, uomini, ritrovando e riaffermando il senso perduto, o offuscato, della nostra dignità, abbiamo bisogno di parole poetiche. Esse infatti non sono mera documentazione di un passato trascorso per sempre; arricchendoci mediante le profonde esperienze che le hanno generate, diventano il vitale antidoto per attraversare le selve oscure del presente, e compiere così il pellegrinaggio terreno senza perdere il desiderio di quella pienezza d’amore per cui il nostro cuore è fatto.
La poesia e l’arte, per la loro stessa natura, militano sempre contro l’inferno. Anche quando ne descrivono la macabra efficacia. Anche quando paiono richiudersi in se stesse, per proteggersi dalle radiazioni del male. Perché l’ispirazione che le genera è, in primis, un rifiuto della resa, e nasce dal desiderio di far udire una voce diversa. Ed è proprio di una voce diversa che, oggi, tanti nostri fratelli, piccoli e grandi, vicini e lontani, avvertono drammaticamente il bisogno. Mi pare sia questo lo sfondo su cui papa Francesco colloca, e ci invita a cogliere, il significato profondo dell’anniversario dantesco. Dante come fratello maggiore di tutti noi: come quella voce diversa che non solo il popolo italiano, ma l’umanità intera attendono.
L’accento sull’universalità della Commedia, che cade nelle prime righe del messaggio, è un prezioso monito, per noi italiani (per noi lettori, e studiosi e professori italiani) — primi beneficiari di questo assoluto capolavoro —, a non esserne i custodi gelosi, a non credercene i titolari prediletti. Al cospetto della poesia dantesca nessuno è escluso. Il suo valore specifico è tale che, come l’annuncio di pace ai pastori di Betlemme, essa raggiunge tutti: «quanti sono desiderosi di percorrere la via della vera conoscenza, dell’autentica scoperta di sé, del mondo, del senso profondo e trascendente dell’esistenza». L’umanità, per accedere a Dante e esserne rigenerati, è l’unico prerequisito.
Spicca allora, in questa prospettiva, il secondo tratto saliente del testo. Il richiamo, sotto forma di augurio e auspicio, all’attualità di Dante, che deve essere “onorata”. Leggere Dante significa rendergli onore, tributargli gratitudine, perché l’incontro con lui ha il benefico effetto di restituirci una percezione integrale della nostra natura.
La parte centrale del messaggio evidenzia il legame privilegiato, in termini affettivi ed ermeneutici, instaurato dai predecessori di papa Francesco con la figura e l’opera di Dante: da Benedetto XV a Giovanni Paolo II, da Paolo VI a Benedetto XVI. Il significato di questi rimandi, tutt’altro che accessorio, mette in gioco il concetto di tradizione. L’universalità di Dante, e la sua attualità, l’incisiva presenza della sua voce, si misurano in termini sia orizzontali (sincronici), che verticali (diacronici). Dante colpisce a ogni latitudine, del tempo e dello spazio, e ogni lettore è chiamato a essere protagonista attivo di una dinamica che, tuttavia, non può prescindere dall’apporto dei lettori che ci hanno preceduto. Dialogare con Dante significa, inevitabilmente, dialogare con l’esegesi secolare che delle sue pagine ha investigato la ricchezza e il fascino.
Ed ecco allora che emerge, per pochi accenni, anche il Dante di Francesco: l’idea di Dante che il Sommo Pontefice, con lo stile sobrio e sommesso, delicato ma non remissivo, che gli è proprio, affida alle nostre cure, affinché la sua vicenda e la sua opera «siano nuovamente comprese e valorizzate, anche per accompagnarci nel nostro percorso personale e comunitario». Nuovamente: la sfida è tutta nella responsabilità che questo avverbio porta con sé. Come accade a chiunque sia erede di un tesoro, di un talento, di un carisma. Occorre farne uso nuovamente, con creatività e libertà, per rispondere agli interrogativi del presente, ai bisogni di verità contemporanei. Le letture, e i lettori, del passato, pur eccelsi e sublimi, orientano, ma non bastano.
Il messaggio papale è sigillato da tre sole citazioni: un’antologia più che selettiva, che — per frammenti — distilla e cristallizza il suggerimento del Pontefice. Se quello di Dante è «paradigma di ogni autentico viaggio», se il poema è specchio di un itinerario che concerne tanto il singolo individuo, quanto la società nel suo insieme, l’attenzione di Francesco ne denuncia l’escursione estrema, immanente e trascendente, con appena due parole: l’Inferno come ferocia, il Paradiso come amore. Inferno è quando gli uomini riducono il creato a spazio di contesa e lotta per la reciproca sopraffazione (cfr. Par. XXII 151); Paradiso, invece, è vivere d’amore, in armonia e felicità, per effetto d’un Amore più grande in cui ogni umano anelito trova pace (Par. XXXIII 145). La terza citazione (da Par. XXIV 145-147) estrae dal poema dantesco la dimensione dentro cui tale metamorfosi è sempre possibile: si chiama fede.