Potrebbe essere stata una circostanza del tutto casuale il fatto che nel 2013 la Jaca Book abbia mandato in libreria la rassegna letteraria Nelle vene d’America di Antonio Spadaro (direttore della Civiltà Cattolica, critico letterario e docente presso la Pontificia Università Gregoriana) e che nel novembre dello stesso anno ricorresse il ventennale della morte di Antony Burgess (1917-1993), il romanziere cattolico inglese al cui A Clockwork Orange (1962) si ispirò Stanley Kubrick per il suo celebre film Arancia meccanica del 1971 (Nelle vene d’America. Da Walt Whitman a Jack Kerouac, Jaca Book, Milano 2013).
Eppure la grande riflessione sulla natura della libertà condotta da Burgess e che passa anche nella pellicola di Kubrick (a dispetto di troppa ricezione mediatica spesso superficiale del film) si ritrova come motivo conduttore in molti degli autori presi in esame nella rassegna americana di Spadaro: già a Walt Whitman (1819-1892), secondo il direttore della Civiltà Cattolica, possono infatti applicarsi le parole di Chesterton («la libertà è in sé una gloria» e «anche le anime dell’inferno dovrebbero avere le aureole»), le quali significano non che anche il male salva, ma che la salvezza può arrivare anche dal chiedersi qual è la radice profonda della propria libertà di peccare.
Se allora il senso di Arancia meccanica non è l’inno alla libertà anarchica, ma il passaggio in cui il cappellano del carcere spiega al protagonista Alex che il bene è una scelta, c’è, a proposito di Whitman, un fatto, messo in luce da Spadaro, a mio parere decisivo: nel 1882 il poeta gesuita inglese Gerard Manley Hopkins (1844-1889) scriveva che la mente di Whitman era simile alla sua più di ogni altra, ma questa consonanza tra Whitman e Hopkins conduce immediatamente a John Henry Newman (1801-1890), il sacerdote e intellettuale cattolico convertito dall’anglicanesimo, cardinale nel 1879 e beatificato nel 2010, seguendo il cui esempio Hopkins si convertì al cattolicesimo nel 1866.
Spadaro considera tredici scrittori, compresi grosso modo tra la metà dell’Ottocento e la metà del Novecento, che costituiscono solo una piccola parte del mondo letterario americano otto-novecentesco e tra i quali non sono inclusi grandi nomi come Hemingway, Steinbeck, Faulkner o Scott Fitzgerald, ma questo volume consente comunque di dire (forse per la prima volta?) che una parte importante della letteratura contemporanea del nord America contrae un debito col cattolicesimo. Se è vero infatti che la poesia whitmaniana «ha attraversato un secolo e mezzo, influenzando tutta la poesia americana successiva» (p. 22), allora la vena newmaniana scorre, al di là dell’Atlantico, attraverso Whitman, in molta letteratura americana successiva, sicuramente in Edgar Lee Masters (1868-1950) ed Emanuel Carnevali (1897-1942) e in quegli autori nei quali è presente un’eredità diretta di Gerard Manley Hopkins: William Carlos Williams (1883-1963) ed Elizabeth Bishop (1911-1979).
L’elemento comune a tutti è la predilezione per un’arte narrativa e poetica che deve aiutare l’uomo a «uscire dal labirinto del soggettivismo» (p. 125), in quanto «non è pura espressione del sentimento o fantasia, ma segue naturalmente alla visione chiara e intensa delle cose» (p. 31). Se in un Jack London (1876-1916) ciò significa che egli si conosce non dalle idee ma «dalle storie che racconta» (p. 107), il confronto col cattolicesimo diventa più stringente nella descrizione della vita «da rasoterra» presente in Raymond Carver (1938-1988), dove il non accadere «nulla di particolarmente significativo» apre a una dimensione di «realismo umanista» (p. 203) che chiama in causa la modalità del rapporto conoscitivo dell’uomo con la realtà.
Cosa devono aver visto, sotto e oltre la superficie misurabile e oggettiva delle cose, Jack Kerouac (1922-1969), per convincersi che il peccare lo autorizzava a definirsi «non un “beat” ma uno strano pazzo mistico cattolico» (p. 292), e Flannery O’Connor (1925-1964), quando descrive così uno dei suoi personaggi: «c’era in lui il profondo nero inespresso convincimento che il mezzo per evitare Gesù consistesse nell’evitare il peccato» (p. 264)?
Per rispondere a questa domanda, la lettura del volume di Spadaro va accompagnata almeno da un primo accostamento alla figura di John Henry Newman, iniziatore, con Perdita e guadagno (1848), della letteratura cattolica in lingua inglese e su cui, oltre all’edizione di suoi testi poetici uscita nel 2010 per Jaca Book e da me recensita su queste colonne, segnalo anche il volume di Sergio Cerastico dedicato all’idea di università e alle sue radici teologiche e filosofiche: John Henry Newman, l’università, i laici, Cittadella, Assisi 2012. Flannery O’Connor, infatti, nella sua riflessione sul rapporto tra la libertà dell’uomo e la grazia, spiegava l’intuizione newmaniana secondo la quale solo la Chiesa poteva mirare alla rigenerazione del cuore dell’uomo, scrivendo che la tenerezza, «staccata dalla persona di Cristo, è avvolta nella teoria» e «la sua logica conseguenza è il terrore» (p. 274).