Il dibattito sul valore legale del titolo di studio, sull’opportunità del suo mantenimento nel nostro sistema ovvero sugli effetti che il suo superamento potrebbe comportare, dovrebbe svilupparsi a partire da una convenzione preliminare e da, almeno, tre interrogativi.
La convenzione è che per valore legale si intende la corrispondenza tra il titolo rilasciato e il livello di competenze cui esso teoricamente corrisponde. Il valore legale del titolo di dottore in ingegneria civile consiste, tra l’altro, nel fatto che la persona che lo acquisisce è in grado di progettare un’abitazione; ancora il valore legale del titolo di dottore in scienza della formazione primaria dovrebbe consistere nel fatto che coloro che lo acquisiscono abbiano le competenze per insegnare a bambini della scuola primaria, ecc.
I tre interrogativi sono i seguenti. Primo: a quali principi si ispira il valore legale? Secondo: cosa comporta rispetto all’esercizio delle professioni ovvero all’ingresso nel mondo del lavoro? Terzo: i suoi effetti producono apprezzamento nel mondo economico, produttivo e dei servizi?
Circa la prima questione, è indubbio che il principio che ispira il valore legale è quello della “fede” pubblica. Siccome il singolo non ha gli strumenti adeguati per verificare se la persona che vanta un determinato titolo possiede effettivamente le competenze che esso certifica, allora lo Stato si assume tale compito allo scopo, appunto, di proteggere la collettività – diremmo oggi – dalle “asimmetrie” informative. Ciò detto è evidente che lo strumento del valore legale non può trarsi dall’art. 33 della Costituzione, che prescrive esami statali per il passaggio da un ordine ad altro di studi. Questa norma, infatti, ha tutt’altro scopo e, cioè, quello di prescrivere la valenza egalitaria del titolo di studio su tutto il territorio nazionale, in funzione del principio di uguaglianza sostanziale. Così come è propriamente allo scopo di garantire tale principio che sempre l’art. 33 si apre asserendo che lo Stato deve garantire scuole statali di ogni ordine e grado su tutto il territorio nazionale, affinché a tutti i cittadini, ovunque essi nascano, sia data la possibilità di accedere ad una scuola per istruirsi.
Tale precisazione è importante perché sgombra il campo da una delle tante “false” questioni agitate in questi anni, e cioè che per abolire il valore legale occorra modificare l’art. 33 della Costituzione. Inoltre mette a fuoco il vero tema: come ha ben detto Lorenza Violini su queste pagine, partire dal valore legale del titolo di studio per riformare l’università equivale a “ristrutturare la casa cominciando dal tetto”. Il problema delle differenze tra le università in termini di capacità di formazione e della differenza “reale” tra le lauree che rilasciano, va affrontato in maniera sistemica: vera autonomia rispetto alla definizione dei percorsi, vera valutazione da parte dello Stato, vero diritto allo studio, etc. Dunque, non confondiamo il compito dello Stato di garantire l’eguaglianza sostanziale sul territorio nazionale (che, appunto significa vigilare sul fatto che le università assolvano correttamente i loro compiti minimi dando identiche chances di partenza agli studenti) con il valore legale del titolo.
Seconda questione. Il vero problema del valore legale è nel nesso stretto tra questo e l’ingresso in buona parte del mondo del lavoro: quello pubblico e quello delle professioni. Nelle pubbliche amministrazioni la sola presenza di una laurea è di per sé condizione di un certo inquadramento, di passaggi di carriera e della possibilità di giungere a posizioni apicali. Stesso discorso vale per le professioni: l’esame di Stato ha come pre-condizione il possesso della laurea. Ed è su questo terreno che si svela l’“inganno” di come oggi in Italia è attuato il valore legale, perché quell’accertamento volto a tutelare la fede pubblica non esiste, è praticamente dato per scontato. In sostanza non esiste un reale momento di valutazione da parte dello Stato del fatto che le competenze teoriche (scritte sul “pezzo di carta”) corrispondano a quelle effettive. Gli esami per l’abilitazione all’esercizio delle professioni dovrebbero costituire questo momento di accertamento, ma chiunque abbia fatto parte di una commissione per un’abilitazione nazionale sa perfettamente che non è così: le competenze non si accertano per davvero e tutto si riduce al solito burocratismo italiano, in cui ciò che prevale è che il numero dei plichi consegnati corrisponda a quelli restituiti.
Terza questione. Di qui l’estrema insoddisfazione da parte del mondo economico, produttivo e dei servizi per il valore legale e, più in generale, per questo sistema. Un sistema in cui lo Stato non regola davvero e non controlla niente. Ben venga allora la consultazione perché è utile capire prima di agire. Poi, però, anziché assumere decisioni tranchant sul valore legale, si facciano almeno due cose.
Anzitutto si continui nel lavoro di valutazione (VQR) delle strutture universitarie e dei singoli docenti, al fine di rendere più seri tutti i processi, magari correggendo, nel frattempo, qualche stortura che si sta evidenziando. Bisogna, infatti, obbligare tutte le università ad essere più serie, e lo Stato deve obbligarsi ad investire di più nell’istruzione superiore per dare il segnale che ci crede, che crede nella necessità di avere laureati più bravi.
In secondo luogo si torni al vero spirito del valore legale: l’accertamento delle competenze. Si eliminino i passaggi “automatici” (o peggio “falsi”) nella pubblica amministrazione; si riformi l’esame di abilitazione alle professioni in maniera adeguata (oggi la pre-selezione si fa spesso con i quiz!).
Vi è da augurarsi, in sostanza, che il governo dei tecnici inizi a cambiare anche questo modo di pensare all’amministrazione della cosa pubblica.