Cosa c’entra con noi il bosone di Higgs scoperto quasi un anno fa al Cern di Ginevra? Dopo il tempo delle notizie, delle informazioni, dei premi ci voleva qualcuno che ponesse questa semplice ma fondamentale domanda. È vero, è tempo di bilanci al grande acceleratore LHC. La macchina è ferma da qualche mese ormai. C’è ancora una montagna di dati da analizzare per completare ancor meglio la carta di identità del nuovo bosone di Higgs. Ci sono tante domande a cui l’acceleratore può dare risposte ancora aperte. Ma per far questo ci sono più di diecimila scienziati da oltre sessanta paesi del mondo.
Ciò che è di interesse per noi è piuttosto ascoltare chi, vivendo questa avventura da protagonista, può cogliere cosa ci sia di interessante per tutti in questa scoperta. Ed è stata proprio Fabiola Gianotti, già spokesperson di ATLAS, uno dei due più grandi esperimenti di LHC, a raccogliere la sfida con passione venerdì scorso in uno stracolmo auditorium dell’Università Milano-Bicocca. Con il coinvolgimento che naturalmente crea chi racconta cosa trova di bello per sé nell’avventura della ricerca scientifica; con la semplicità di chi parla della propria esperienza.
«Guardate, questa è la vista aerea del Cern, questo è l’LHC, io invece abito qui», dice indicando sulla mappa la zona della sua abitazione. E scherzando aggiunge «Se passate di lì vi invito a casa mia, sono un’ottima cuoca».
Il bosone di Higgs è l’ultima particella predetta dal Modello Standard, la teoria che racchiude tutto ciò che sappiamo sulle particelle e interazioni fondamentali. «È una particella molto speciale perché non appartiene alle due classi in cui si suddividono le altre particelle: quelle di materia, come gli elettroni che sono i costituenti fondamentali dell’atomo, e quelle di interazione, che trasmettono le forze, quella debole e quella forte». Ma è ancora più speciale perché «è responsabile dell’origine di particelle con massa nella storia dell’ universo. Noi siamo quello che siamo perché ciascuna particella ha esattamente la massa che ha. Il bosone di Higgs è responsabile di quella massa, e noi siamo quello che siamo perché le particelle hanno esattamente quella massa».
Dire che il bosone di Higgs sia responsabile di dar massa delle particelle, non vuol dire che il bosone di Higgs “dia” massa alle particelle nel senso che sia responsabile del loro essere in quanto tali, come se “dare” la massa alle particelle, volesse dire “creare” le particelle stesse, colmando l’abisso tra l’essere e il non essere. Gianotti infatti specifica in modo pittorico la modalità corretta di intendere l’affermazione secondo cui il bosone di Higg “dia” massa alle altre particelle. Per questo fa riferimento a quanto è successo nella storia dell’universo un centesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang, quando un importante cambiamento nell’universo che si raffreddava – una transizione di fase in gergo tecnico – ha fatto sì che l’oggetto quantistico associato alla particella di Higgs, il campo di Higgs che permea tutto l’universo, sia «diventato come un mezzo viscoso, per cui le particelle sono rimaste più o meno rallentate».
Da quel momento in poi ciascuna particella nell’universo è rimasta più o meno rallentata, o fuor di metafora, ha acquisito una massa più o meno grande nell’interazione con il campo di Higgs. È interessante che «se le particelle, per esempio i quark, non acquisissero esattamente le masse che hanno nell’interazione con il campo di Higgs, l’universo non sarebbe quello che è; il protone decadrebbe, dunque l’atomo non sarebbe stabile, non esisterebbe la chimica e quindi l’uomo».
Qui si capisce cosa c’entra il bosone di Higgs con tutti noi. Il bosone di Higgs è un tassello che contribuisce a determinare il modo con cui ci concepiamo nell’universo, permettendoci di capire perché possiamo esserci nell’universo. E, in più, ancora una volta ci permette di riaccorgerci che capiamo l’universo: una particella, un bosone, la cui esistenza è stata predetta da Peter Higgs quasi cinquant’anni fa per delicate ragioni di fisica teorica, se cercata nella realtà fisica, c’è, c’è davvero.
Non è facile trovare il bosone. Ci vogliono anni di esperimenti con ventimilioni di scontri di protoni al secondo per produrne una manciata sufficiente da “inchiodarlo” e caratterizzarlo in modo incontrovertibile. Ci vogliono la tecnologia e l’industria italiana ed europea per produrre magneti superconduttori da dodicimila ampere di corrente su scala industriale. Bisogna sviluppare un sistema per tenere i magneti a temperatura di -271 °C, vicinissimi alla temperatura più bassa concepibile che è lo zero assoluto, -273 °C. Ci vuole lo sviluppo di un’architettura di calcolo per salvare ed elaborare 10 petabyte di dati l’anno, tanti quanti ne entrerebbero in una pila di dvd alta una ventina di chilometri. Bisogna portare i protoni a collidere ad energie di una decina di TeV, che è come ordine di grandezza centomila miliardi di volte l’energia cinetica di una molecola nell’atmosfera terrestre.
Ma il bosone c’è, è lì che aspetta. E, di riflesso, possiamo usare tutti i giorni la tecnologia sviluppata per cercarlo: dalla PET all’adroterapia per la cura dei tumori. Del resto, anche il Web, che di recente ha compiuto vent’anni, è nato al Cern.