Credo che il primo errore che un lettore debba evitare confrontandosi con il libro di Maurizio Sacconi “Ai liberi e ai forti” (Mondadori, ottobre 2011, 114 pagine, euro 17,50) sia quello di considerarlo la solita operina che il politico professionale scrive (o meglio si fa scrivere come nel caso di Gianfranco Fini) in modo più o meno affrettato per darsi una verniciata culturale, o – quando la redige materialmente – per far vedere che sa tenere la penna in mano (comunque prova, di questi tempi, non da poco), o magari vuole darsi un’immagine cool (vedi le infinite noiosate di Walter Veltroni). No, quello di Sacconi è un libro uscito dalle viscere: uno di quegli sforzi che l’autore, se è politico di razza cioè alla ricerca di un ruolo di servizio per la propria nazione, sente come necessari.
E’ un libro che gli nasce da dentro, dalla passione di cittadino impegnato per cercare di risolvere i problemi dell’Italia sin da giovane, prima nel sindacato, poi nella cooperazione, da socialista lombardiano, poi sottosegretario nel governo Craxi dei primi anni Ottanta quando vive un’esaltante sfida riformista (il referendum sulla scala mobile che vinto dal governo contro Pci e Cgil consentì di piegare l’inflazione e far diventare l’economia nazionale la quinta nel mondo), infine da persona impegnata civilmente che resiste all’ingiustizia giustizialista e diventa così uomo di governo col centrodestra dal 2001 al 2006, e dal 2008 al 2011.
“Ai liberi e ai forti” non è un esercizio di correttezza politica: c’è il macerarsi di una coscienza che ritrova a pieno le mai abbandonate radici cristiane, che recupera un nucleo consistente del riformismo craxiano ma fa anche i conti con l’eccezionalità berlusconiana, descritta realisticamente cogliendone il nucleo vitale, senza apologie, comprese le evidenti esigenze di evoluzione.
Sacconi non è uno dei tanti italiani antitaliani che si vorrebbero svedesi, londinesi o almeno calvinisti: secondo la sua analisi la tradizione nazionale ha consentito conquiste eccellenti che si tratta di cogliere per affermarle, innovandole, non negandole. Non è una visione irenistica, di un progresso inevitabile. Anzi parte del saggio è dedicata a descrivere nella storia dello Stato nazionale tre grandi ostacoli: una grande borghesia superprotetta, élite giacobine o tecnocratiche portatrici di disprezzo per il popolo e di un’idea di razionalità puramente tecnica, al fondo nichilistica, e infine corpi dello Stato che tendono a separarsi dalle istituzioni della sovranità popolare come oggi certi settori “insorgenti” della magistratura.
E’ la lettura della storia nazionale, del suo indomabile popolo di produttori – riallacciandosi alla lezione di Luigi Sturzo- delle difficoltà di saldare popolo, nazione e Stato come descritto dal cardinale Giacomo Biffi in un recente saggetto sull’Unità d’Italia, che inquadra le diverse proposte derivate dall’esperienza di governo su fisco, welfare, Sud, educazione. Inquadrando così le idee guida sacconiane, già esposte in tante occasioni: l’antropologia positiva, la vita attiva come vita buona, la società responsabile, la vitalità demografica come base della crescita. Idee accompagnate dall’ascolto innanzi tutto del dibattito nel mondo cattolico, dai valori non “disponibili” alla cultura del dono.
Uno scritto ben articolato che fa i conti con argomenti che non nascono da qualche stilista del pensiero ma da un uomo politico che spiega da dove derivano la sua visione, la sua passione, il suo impegno concreto.