La prudenza non è mai troppa, recita il proverbio, e vediamo spesso sulle strade gli effetti negativi dovuti alla mancanza di prudenza. Un sorpasso azzardato, una velocità eccessiva o un attimo di distrazione possono rivelarsi fatali o, più spesso, costare caro. Ma esistono situazioni in cui è l’eccesso di prudenza ad essere pericoloso? Se compriamo la benzina e vogliamo essere sicuri che il numero di litri comprato corrisponda a quello dichiarato per non ritrovarci senza carburante, la cosa inizia a farsi complicata: dobbiamo misurare precisamente il volume e poi travasarlo nel serbatoio, spendendo tempo e con il rischio di versarne per terra. Se poi vogliamo controllare il numero di ottani (un indice che lega la composizione chimica al potere detonantedella benzina) per evitare che una benzina di cattiva qualità non ci rovini il motore, allora abbiamo bisogno di competenze, macchinari costosi e, di nuovo, un certo spreco di tempo e di energia. Se la prudenza ci suggerisce di non fidarci dei farmaci che il dottore ci prescrive, il tutto si fa oltremodo complicato. Prima di tutto dobbiamo essere sicuri che il contenuto del farmaco corrisponda a quanto dichiarato, cosa che implica una serie di lunghe e costose analisi fatte da un laboratorio ben attrezzato. Se non abbiamo un laboratorio di fiducia e dobbiamo metterlo in piedi noi, le dolenti note si aggravano e arriviamo ben presto a prosciugare il conto in banca. Anche quando avessimo raggiunto la certezza (?) sulla composizione, a costo di gravi sacrifici, dobbiamo comunque controllare se gli effetti sono quelli dichiarati, come ad esempio, l’abbassamento del livello di colesterolo o la capacità di eliminare un’infezione. Ovviamente non possiamo fidarci di una singola osservazione positiva o negativa in tal senso prima di accettare o rigettare il farmaco. Se non volete provare un nuovo farmaco su di voi stessi, occorre fare le cose per bene, verificare prima su degli animali che l’effetto positivo esista e che non ci siano effetti negativi a lungo termine. È meglio controllare con due specie diverse (topi e su conigli) per essere più sicuri, e solo dopo che questo studio si è concluso, iniziare a fare dei test clinici su volontari o pazienti. Tali test, se condotti secondo i crismi correnti, durano diversi anni e comportano diverse fasi con costi di decine o centinaia di milioni di euro, da accollare ovviamente a un individuo iperprudente che sia anche miliardario. Il personaggio sarà alla fine soddisfatto dai risultati? Forse no, perché esistono sempre gli effetti collaterali e, ancora peggio, quelli imprevisti e imprevedibili. Ormai ridotto sul lastrico, incapace di prendere una decisione sul farmaco, morirà per troppo colesterolo o per una banale polmonite: il soggetto (immuno) depresso è stato di fatto ucciso dalla troppa prudenza. Fin qui la storiella ci fa solo sorridere perché, in fondo, l’eccesso di prudenza castiga chi esagera e la morale naturale è “in fondo se l’è cercata”. Ma se adesso invece di un farmaco si trattasse di cibo e a pagare i costi maggiori non fosse un ben pasciuto miliardario, ma i poveri dell’Asia o dell’Africa, la storia assumerebbe connotati tragici. Purtroppo è esattamente quello che è successo e continuerà a succedere con i cibi derivati da piante geneticamente ingegnerizzate. Nonostante migliaia di dati sperimentali, prove di campo, test tossicologici e oltre mezzo miliardo di ettari coltivati fino ad oggi con queste nuove varietà, le organizzazioni ambientaliste internazionali e nazionali, molti sindacati agricoli italiani, alcune organizzazioni di consumatori e molti politici di varia estrazione chiedono e chiederanno ancora prudenza (il cosiddetto “principio di precauzione”), invocheranno una moratoria, pretenderanno ricerche indipendenti e di lunga durata per evidenziare eventuali effetti a lungo termine. Quanto lungo sia questo termine, ai comuni mortali non è dato di saperlo e purtroppo nessuno si assumerà la responsabilità di aver ritardato per anni l’introduzione e l’accettazione di questa tecnologia. Nessuno pagherà per il danno economico ai produttori italiani che non hanno accesso alle migliori varietà sviluppate in questi anni. Ma il danno più grosso dell’eccesso di prudenza non viene pagato in euro, è pagato in moneta di scarso valore, sotto forma di vite umane, e in paesi distanti.
L’eccesso di prudenza in Italia si ripercuote nel terzo mondo in due modi. Prima di tutto come emulazione. Se l’Europa rifiuta queste nuove varietà perché mai dovrebbero accettarle i paesi del terzo mondo. Infatti nel 2002, lo Zambia, stretto nella morsa della carestia, ha rifiutato gli aiuti alimentari provenienti dagli Stati Uniti perché fatti in parte da mais Bt (un mais ingegnerizzato per resistere ad un parassita) costringendo la gente alla fame nonostante nei magazzini fossero tenuti sotto chiave le donazioni di mais. Alcuni magazzini furono giustamente saccheggiati, perché la gente si prendeva quello che era stato donato a loro e che il governo, sostenuto da alcuni gesuiti carenti sulla genetica, impediva loro di ottenere. La motivazione era perché l’introduzione di tali semi avrebbe potuto far perdere alcuni mercati di esportazione europei o danneggiare i batteri del suolo (!). Niente male per dei religiosi. Il rifiuto europeo di coltivare le nuove varietà risulta poi di un’ipocrisia iperbolica, perché la UE importa ogni anno circa 20 Mt di soia e derivati (e la sola Italia ne importa ben 4 Mt) transgenici tra il 50 e il 100%. Se fanno male non dovremmo importarne neanche un kg. Se il problema fosse invece la coltivazione, perché facciamo fare il lavoro “sporco” agli altri paesi? Tenete conto che, di fatto, non riusciremmo a fare neanche il parmigiano reggiano e il prosciutto di Parma senza la soia transgenica.
La seconda modalità è che il presunto rifiuto dei consumatori europei (e italiani in particolare) per queste nuove varietà, che viene snocciolato con fior di sondaggi anno dopo anno, uccide di fatto la tecnologia. La uccide perché spinge i politici, timorosi del (pre-)giudizio popolare, a non tener conto dei giudizi ponderati di tutti gli organismi scientifici come l’EFSA, delle società scientifiche, delle accademie delle scienze, tutti a favore della tecnologia, in quanto non più pericolosa delle altre tecnologie in uso, e dei suoi prodotti in quanto equivalenti o più sani a quelli convenzionali. Questo ha portato i politici europei a varare una normativa draconiana e restrittiva che si basa sulla tecnologia, non sul prodotto. L’effetto primario di questa regolamentazione non basata sulla scienza non è certo di tranquillizzare i consumatori, più spaventati che mai, ma di far lievitare i costi di approvazione che arrivano ad essere migliaia di volte il costo effettivo di sviluppo del prodotto.