L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea ha lasciato molti commentatori a bocca aperta. Assai meno i mercati. A parte un breve momento di gioco al ribasso, le borse hanno ripreso l’andamento pre-Brexit. È vero che all’ultimo momento i broker avevano puntato su una vittoria al fotofinish del Remain, a causa dell’omicidio della parlamentare laburista Jo Cox per mano di uno squilibrato inneggiante slogan pro-Brexit, ma i mercati avevano già pienamente metabolizzato un risultato che era nell’ordine delle cose.
Ora, cosa succederà? Nel breve e nel medio periodo, molto probabilmente nulla di eclatante. Il Regno Unito, dopo un periodo di melina generalizzata, concorderà un rapporto proficuo a tutti i contendenti. Ad ognuno fa comodo che un mercato comune consenta liberi scambi. Il resto è noia.
Fin qui, per mantenerci al livello fenomenico delle cose, ma proviamo a risalire alle dinamiche profonde.
Storicamente, la Ue non è il primo tentativo di unificazione del continente europeo. Lasciando stare Carlo Magno, in epoca moderna abbiamo avuto prima l’Impero napoleonico, che effettivamente ha uniformato l’Europa su molti piani, dal diritto alle unità di misura (che sia una fissazione cronica?), poi il Terzo Reich. Sia l’uno sia l’altro sono durati poco e sono stati imposti dalla forza delle armi, anche se il tentativo francese si è svolto progressivamente sulla spinta della sua rivoluzione borghese e quello tedesco come conseguenza di una involutiva reazione totalitaria.
E quale sia il più moderno è tutto da vedere. Il primo con una grossa e rumorosa locomotiva francese e tanti vagoncini tedeschi. Il secondo a trazione germanica, ma con la Francia, dall’occupazione alla fine della guerra, a collaborare alacremente con le proprie industrie e centinaia di migliaia di lavoratori allo sforzo bellico tedesco, ivi compreso lo sterminio degli ebrei. Il binomio franco-tedesco non è certo una novità. Dopo di che, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, attraverso un processo articolato, è nata nel ’93 la Ue. Questo tentativo di unificazione è avvenuto in maniera democratica (anche se ha dato esiti istituzionali che ad alcuni non sembrano per niente democratici), inclusiva e formalmente paritaria, ma rischia di durare poco, anche se non quanto i precedenti, ma quasi.
Le motivazioni all’origine di questo ultimo lieto evento furono essenzialmente due, entrambe difensive; una più urgente e dannatamente concreta, l’altra meno e assai più retorica. Quella meno improrogabile e più di facciata era di evitare che l’Europa si dissanguasse definitivamente producendo altri milioni di morti, com’era accaduto con le due guerre mondiali, avvenute in gran parte sul terreno europeo. La generazione dei “padri fondatori” — gli Schumann, Spaak, Monnet, Adenauer, De Gasperi — aveva vissuto quell’epoca e ne ricordava ancora gli orrori. Tuttavia, Montale lo aveva già messo in rima: “La storia non è magistra di niente che ci riguardi”; e la storiella di un’Europa garanzia di pace andrebbe ogni giorno risentita alla luce di quel che poi è capitato nella ex Jugoslavia.
Dietro alle buone intenzioni, vi era soprattutto la constatazione e il tentativo di rimediare, almeno in parte, al fatto inequivocabile che due guerre essenzialmente europee e nate in Europa avevano declassato il Regno Unito, la Francia e la Germania da grandi nazioni a potenze di ordine regionale. Inoltre vi era, per le prime due, l’urgenza di capitalizzare la vittoria senza mettere la terza in una posizione che ricordasse anche solo minimamente Versailles. Purtroppo, lo scambio conclusivo “unificazione tedesca vs euro” non è stato probabilmente l’operazione più azzeccata. Andreotti pare abbia detto: “Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due”. E Churchill, a suo tempo, ne avrebbe volute addirittura ancora di più.
La motivazione più urgente ed esiziale, però, la più seria, era di scongiurare, unendosi e collaborando vivamente sotto l’ombrello strategico americano, una possibilissima e, nel caso, rapidissima conquista da parte dell’Unione Sovietica, la quale aveva già unificato, peraltro, la parte orientale dell’Europa. Ricordiamoci la piantina politica dell’Eurasia dal ’45 a tutti gli anni Ottanta: una immensa compatta massa rossa con una sottilissima striscia blu ad occidente.
In altri termini, l’unificazione dell’Europa occidentale era l’altra faccia del Welfare, anch’esso in buona parte motivato dalla presenza di un’alternativa a cui le classi inferiori avrebbero potuto, per interposta persona (vedi i vari partiti comunisti) aderire. Come questi ha garantito una relativa pace sociale, ma con benefici generalizzati (fordismo, politiche economiche keynesiane e welfare hanno generato i “Magnifici trenta”, gli anni dal ’45 al ’75, il periodo di massimo e apparentemente inarrestabile sviluppo della storia dell’umanità), così l’altra ha momentaneamente prospettato un’armonica coesistenza tra pari e la fine di tutte le guerre.
Lasciando stare le molte contraddizioni che via via hanno fortemente indebolito il progetto di unione europea (la soffocante sudditanza agli Stati Uniti, che hanno costantemente lavorato affinché l’Europa non diventasse, finita la guerra fredda e l’era delle superpotenze, il loro vero e unico concorrente; l’appartenenza fuori tempo massimo alla Nato, che ha consolidato l’imperio americano e reso impossibile la costituzione di un’autonoma forza difensiva europea e quindi l’espressione di una reale e comune politica estera; ventiquattro lingue ufficiali; una burocrazia sempre più pletorica; una opacità di fondo delle sue istituzioni; una permeabilità scandalosa all’azione delle lobby; ecc. ecc), l’Unione Europea nata a Maastricht era già, dal punto di vista delle sue due motivazioni di fondo, fuori corso.
La maggioranza degli elettori del Regno Unito che hanno votato per la Brexit appartengono alle generazioni che ancora ne ricordano le ragioni. Non appartengono a quelle che hanno subito, per dirla con Hobsbawm, le conseguenze della “distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti […] uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento” (con buona pace del programma Erasmus).
Si ricordano di aver vinto due guerre mondiali costate sangue, sudore e lacrime, entrambe contro una Germania oggi unita ed egemone, in una Unione diventata campione di un neo-liberismo che ha smantellato welfare, ascensori sociali e illusioni da ceti medi. Esattamente le fondamenta dell’Unione. Tutto, ogni volta, sotto un esplicito diktat: “Ce lo chiede l’Europa!”.
In tutto ciò, a ben vedere, la vera tragedia è la mancanza, per ora, di un’autentica alternativa. Ancora per un po’ dovremo abituarci a convivere con due schieramenti, in realtà facce della medesima disgraziata medaglia: la messa in scena dei cosiddetti populismi, espressione dell’incertezza, della paura, del desiderio ingenuo da parte della maggioranza degli europei di voler tornare indietro a quando le cose andavano meglio; la difesa ad oltranza dell’Unione così com’è da parte delle sue istituzioni e dei ceti politici più responsabili (responsabili in tutti i sensi), soprattutto senza rimetterne in discussione prospettive e politica economica e sociale.
Stando così le cose, l’Unione è sul lungo periodo in rotta di collisione. Come il Titanic.