Un po’ spaesato dovrà essersi sentito anche lui, pur dall’alto dei suoi tre metri e mezzo. Abituato da anni a esibire la propria dolorosa potenza di fronte alla pacatezza neoclassica di dodici divinità dell’Olimpo, di colpo dall’ottobre del 2016 nessun tridente, nessun panneggio e piedistallo a circondarlo. Di colpo il gesto furioso con cui Ercole scaraventa Lica, l’araldo colpevole, suo malgrado, di avergli offerto la veste intrisa di veleno, si riflette nel mare. Per la precisione, nei 32 metri quadrati di mare anilinico e frammentato che Pino Pascali realizza nel 1967, una distesa di trenta vasche di alluminio zincato colme di diverse gradazioni di blu. Mare che, a sua volta, rimbalza nel blu di Yves Klein appeso nella parete di fronte, così blu da schiudere i terreni dell’oltre.
Abituati anche noi a ben altre sale, ordinate per movimenti artistici (sala dei neoclassici, dei romantici, degli impressionisti, dei futuristi e via dicendo), da quasi un anno alla Gnam (Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma) è saltato tutto: la sala di Ercole e Lica di Canova ne è solo un esempio. Capolavori dell’Ottocento dialogano con artisti contemporanei, in alcuni casi viventi; statue, giù dal piedistallo (finalmente, aggiungerei) che indicano, spalle al pubblico, quadri moderni o vere e proprie installazioni. Time is out of joint, “Il tempo è fuori di sesto, fuori dai cardini”, fa dire Shakespeare al suo Amleto e non avrebbe potuto scegliere titolo più azzeccato la direttrice Cristiana Collu per il suo ardito allestimento, visitabile fino all’aprile 2018.
Proprio l’intera opera shakespeariana, non solo il verso scelto, può fornire qualche chiave per riconoscere la pertinenza al nostro tempo della coraggiosa operazione. Amleto è un’opera aperta, dalla struttura elastica, che un momento prima ci fa essere a corte, un momento dopo in un cimitero, in una fortezza e in un paesaggio sconfinato; un’opera in cui è rappresentata tutta l’esperienza umana, secondo un filo che non segue un tempo lineare, ma il tempo della coscienza, che è un tempo altro, un tempo senza tempo, un tempo sì fatto di momenti concreti, storici (l’imbattersi in certi occhi, quella domanda da far rimanere insonni, quel gesto paterno durante l’infanzia), ma che non sono fissati rigidamente, in fila come anelli di una collana; i momenti creano la loro personale costellazione, il loro fantasioso dialogo, del tutto indifferente alle logiche strette della consequenzialità, del tutto incurante di rigide sequenze: nella coscienza il tempo è ampio e libero, è un eterno presente, un sempre contemporaneo.
Ecco, l’allestimento di Cristiana Collu rispetta questo tempo personale, anzi, di più, lo sollecita. Ed è un bel suggerimento di metodo anche per i professori, soprattutto di letteratura e arte, che si apprestano a iniziare. Nel nuovo percorso non c’è spazio per una fruizione rassicurante in cui si ricerca quello che già si sa, magari per reminiscenze scolastiche, ma si è incalzati a farsi domande. Proprio come Amleto, che è tutto una grande domanda sul significato delle cose e di tutto ciò che lo circonda, in un tempo che non è fatto di certezze, né di verità preconfezionate da altri, ma è il tempo del mistero nelle cose. E a forza di domandare, di, come dice Agostino Lombardo sul principe di Danimarca, non dare nulla per scontato, di nulla accettare dall’esterno ma di volere tutto “personalmente saggiare, sondare, capire, sperimentare”, chissà che epifanie, personali e sempre nuove, si apriranno.