L’anno scolastico 2013/2014 si è aperto con due interventi del ministro Carrozza, la cui valenza culturale (perché di scuola e formazione delle giovani generazioni stiamo parlando) andrebbe analizzata con meno frettolosi (e faziosi) giudizi di quelli che capita di leggere. Io stessa mi rendo conto che ciascuna delle questioni che mi accingo ad affrontare richiederebbero un approfondimento esauriente, difficilmente compatibile con la normale, e forse già eccessiva, dimensione di un articolo.
Parlo in primo luogo del decreto che dà attuazione alla legge che sul finire del 2012 ha fatto il punto sull’avvento del digitale, anche nella scuola, e sull’attenzione che è indispensabile riservare ad un’evoluzione dei processi di insegnamento e apprendimento e che non può giustificarsi e convincere docenti, discenti e famiglie solo in virtù di fantomatici risparmi, quanto a costi di produzione dei testi necessari e relativi prezzi di vendita. E non è un caso che sia la legge, sia il decreto ministeriale attuativo, prevedano forme di gradualità ragionevoli che non frenino chi già si sente pronto all’innovazione, e rispettino anche i tempi più distesi ritenuti necessari da altri. Ad arrabbiarsi, in effetti, sono per lo più solo coloro che ritengono comunque mal spesi i soldi che vanno verso l’acquisto di contenuti culturali di qualità, che pure sono la ragion d’essere della scuola e della formazione dei giovani. E questo è già di per sé molto grave.
Intendo poi anche parlare del secondo strumento legislativo entrato in pista in concomitanza con l’avvio dell’anno scolastico e precisamente il decreto legge, attualmente all’esame del Parlamento, che nei suoi aspetti più significativi affronta tre questioni evidentemente ritenute fondamentali ai fini di una riqualificazione del nostro sistema scolastico: più risorse finanziarie per un dignitoso funzionamento delle scuole; riduzione (o forse meglio contenimento) del prezzo dei libri scolastici; un primo urgente assestamento del personale docente a tutt’oggi precario.
È stato un atto di coraggio, perché risorse dello Stato per la scuola non ce ne sono e al ministro non è rimasto altro che affidarsi al buon cuore e alla generosità di ipotetici soggetti pensosi della francescana povertà di molti istituti scolastici. Quanto al precariato, non è davvero quello l’unico (e forse neanche il primo) problema da affrontare per dare rinnovato slancio ad un corpo docente il cui assetto professionale, giuridico ed economico aspetta ancora di essere reso coerente con le grandi potenzialità e responsabilità rappresentate dall’autonomia scolastica, che non si riduce davvero ad un fai da te, e speriamo che te la cavi (tanto all’occorrenza ci pensa il dirigente).
È tuttavia singolare che anche in questo caso gli animi si siano accesi soprattutto per i libri scolastici, con accuse al ministro, strattonato da ogni parte, ora per eccesso di attenzione alle ragioni degli editori scolastici, ora per eccesso di fantasia nell’esaltare le mirabolanti economie che il passaggio al digitale può (potrebbe, potrà) comportare, non si sa ancora in virtù di quale alchimia aritmetica, ma soprattutto con quale concreto risultato sull’apprendimento dei milioni di studenti che frequentano le scuole italiane, dislocate su un territorio nazionale che non garantisce a tutti le stesse opportunità di fruizione del digitale, a casa e a scuola. Intanto le risorse per sostenere i meno abbienti nell’approvvigionamento dei “contenuti culturali” necessari per consolidare la propria formazione, sia pure con i vecchi libri, quest’anno sono state dimezzate (da 103 milioni di euro a 50 milioni, ma vuoi mettere con i miracoli del digitale).
La notizia non ha suscitato interesse, anzi è stata tenuta molto dignitosamente riservata, mentre riemergeva la vecchia propensione italica a dividerci, anche nel caso del digitale, tra guelfi e ghibellini. Eppure in questa incandescente materia non ci sono, né tra i docenti, e tanto meno tra gli editori, “negazionisti” ad oltranza, ma solo “realisti”, che ritengono di doversi fare carico delle diverse velocità a cui viaggia questo paese, non certo per colpa dei giovani che, Costituzione alla mano, devono poter studiare con profitto anche nelle situazioni più deprivate sul piano delle nuove tecnologie, e con strumenti quanto meno sicuramente collaudati.
Accusare il ministro di avere ceduto alla lobby degli editori per avere previsto nel decreto attuativo una gradualità che sta scritta nella legge a cui deve dare attuazione è semplicemente ridicolo, se non in malafede, a maggior ragione perché l’art. 1 salvaguarda anche un mercato dell’usato che non è davvero al vertice delle aspettative di chi i libri li produce (e per di più corredati da materiali digitali integrativi) con la legittima aspettativa di vederli validati e adottati dai docenti per venderli ad un prezzo equo (e non demagogicamente “inventato”). Un comportamento che sicuramente non viola né i sacri principi della Costituzione, né le regole che vanno rispettate per i contenuti culturali resi fruibili su supporto digitale e neppure il normale approccio imprenditoriale di aziende che non abbiano tra i loro obiettivi il fallimento e la messa in cassa d’integrazione dei dipendenti.
Immagino che dopo queste considerazioni verrò iscritta d’ufficio tra i nostalgici di Gutenberg, non degli amanuensi, spero, che copiando tramandavano anche un sacco di errori e false interpretazioni. E c’è voluto del tempo per rimettere i testi (e le teste) a posto.
Quanto poi al cosiddetto superamento dell’obbligo di adozione, era già previsto da sempre, ed ulteriormente ribadito nel decreto sull’autonomia (DPR 8 marzo 99, n. 275), che non sono certa sia poi così ben conosciuto e che sarebbe bene rileggere ogni tanto per capire chi, e in che termini, e su quali terreni ha la diretta e immediata responsabilità, condivisa con i genitori e con gli stessi “discenti”, del successo formativo di chi frequenta la scuola. Delle decisioni degli insegnanti sarebbe bene imparare a fidarsi, siano essi già maturi per lavorare bene con il digitale, ovviamente nella propria disciplina di titolarità, o non ancora sicuri del risultato.
Tutto il resto sono chiacchiere, pretesti, annunci, polemiche sui giornali e in tv: in sintesi cattiva politica. Alla resa dei conti è la qualità della scuola e degli strumenti di cui si avvale a fare la differenza e con essi l’impegno quotidiano mirato (si spera) a far crescere cittadini e cittadine in grado di pensare, decidere, lavorare in un mondo che sta cambiando, ma i cui connotati e le cui potenzialità sono ancora in gran parte da scoprire e costruire. E nessuno ha oggi in tasca la verità. Per questo serve il confronto, non lo scontro, la fiducia reciproca, non il sospetto.