Giorgio Chiosso alcuni giorni fa invitava a “fermarsi sulla soglia” del dramma, a non continuare a consumare parole che fanno solo rumore, che probabilmente tentano solo di riempire un vuoto insostenibile. Il dramma, parola anche questa inflazionata al punto di perdere ogni profondità, riguarda la vicenda di Carolina Picchio, 15 anni e la decisione di farla finita, di togliere il disturbo, verrebbe da dire dopo aver letto una sua frase lasciata come un addio amaro: “Scusate se non sono abbastanza forte, mi dispiace” – aveva scritto prima del gesto disperato. E proprio attorno a questa sua espressione che, se non fosse per il contesto in cui affiora, suonerebbe come una di frase “normale”, senza particolari accenti di angoscia o di inquietudine esistenziale, sembra giusto “aprire” il silenzio, gli interrogativi veri, un coinvolgimento autentico.
Oggi per sopravvivere, ci suggerisce Carolina, bisogna essere “forti”. Questo è il punto: l’esistenza è come una lotta, una guerra continua; e bisogna vincere a tutti i costi per affermare un potere sulla realtà, per afferrare i giorni, per sentire che qualcosa di noi, almeno qualcosa, resisterà, non sarà inghiottito nella voragine di insensatezza, di solitudine, di frustrazioni. Nel mare di indignazioni che hanno messo sotto accusa Twitter e Facebook, e puntato il dito contro i troppi contenuti beceri e degradanti che riempiono “le piazze virtuali” alla stregua di sfoghi istintivi e fuori da ogni controllo – e che potrebbero forse aver esasperato il malessere della ragazza fino al gesto estremo – sono affiorati anche tanti giudizi e letture più ampie sul ruolo della famiglia, della scuola, sulle responsabilità educative. E sembrerebbe un bene poter trarre da un fatto tragico almeno qualche elemento critico da trasformare in nuova rotta, in ravvedimento che interpella tutti.
Finalmente distanti dalle chiacchiere e dalla caccia alle streghe immediatamente aperta – e qui torna il suggerimento del professor Chiosso a promettere la differenza – è il momento di indagare fino in fondo in quel vuoto che risucchia l’esistenza, la tradisce, la rinnega. Il bullismo, per esempio, spesso additato come causa di disagio che miete “vittime” fuori o dentro la rete, da dove deriva? Come si produce nelle forme tanto subdole e atroci che sempre più spesso oggi, nelle aule di scuola o nei social network, scatena furibonde persecuzioni? Gli “esperti”, una gamma sempre più vasta di psicologi, pedagogisti, scrittori, sociologi, terapeuti, giudici… il più delle volte analizzano le dinamiche del fenomeno indicando le strategie della “lotta”, raccomandando il coraggio della denuncia, la collaborazione, il dialogo.
Intervenendo sul caso di vessazione attraverso la rete virtuale che potrebbe aver indotto Carolina Picchio a spezzare la propria vita, per esempio Anna Oliverio Ferraris, psicologa dello sviluppo nell’Università La Sapienza di Roma, ha messo a fuoco il mondo dei giovani spesso lanciati senza freni nelle loro deleterie “guerre verbali” via Internet, ed ha sottolineato una carenza diffusa, la mancanza di una “alfabetizzazione emotiva” che educhi i giovani a riconoscere e controllare le proprie emozioni. È indubbio che − come ha sottolineato la stessa docente − i sentimenti rappresentano una materia incandescente da gestire e che non è mai troppo l’esercizio richiesto agli adolescenti per imparare a incanalare positivamente le proprie reazioni emotive oggi disancorate da criteri di giudizio che orientano l’agire.
Eppure in tutto questo sembra messo fra parentesi un grido di dolore camuffato in mille modi, a volte arrogante e scomposto, altre volte fragile e soffocato come quello sussurrato da Carolina: “Scusate… mi dispiace”. Prima del dialogo, prima di una nuova educazione dei sentimenti, delle regole di comportamento sociale, di un uso più appropriato ed equilibrato dei social network… c’è una sete che graffia la gola, un bisogno di “essere forti” che si scontra sempre più spesso con un senso di debolezza, di sproporzione angosciosa. È come la mancanza, o meglio la dimenticanza, di un augurio primordiale da respirare con l’aria, di un “benvenuto al mondo” che riecheggi in ogni istante dell’esistenza, che la renda inaffondabile, indiscutibile e la riconosca originariamente positiva.
“Cosa accadrebbe se a un tratto ognuno di loro scoprisse tutto il segreto? Cosa, se ognuno di essi, a un tratto scoprisse quanta lealtà, onestà, quanta allegria sommamente sincera e cordiale, purezza, quanti sentimenti magnanimi, desideri buoni quanta intelligenza…si trova in ognuno di loro, proprio in tutti, assolutamente in ognuno!” Così notava Dostoevskij nel suo Diario di uno scrittore e considerava che un tale straordinario potere potrebbe essere realmente riconosciuto, “è in ognuno di voi − proseguiva − ma nascosto così in profondità che già da molto tempo ha iniziato a sembrare poco credibile… La vostra disgrazia è tutta nel fatto che per voi questo non è credibile”. Concludeva così delineando il passaggio da una cultura dove l’uomo poteva riconoscere la propria vera “immagine”, un proprio volto unico e di infinito valore, alla cultura permeata di nichilismo che ne ha deturpato i tratti, rendendolo anonimo e irriconoscibile.
Di questo raramente si parla, difficilmente qualcuno osa una diagnosi circa la malattia che ha reso tanto fragile la consistenza del vivere, che ha indebolito quell’istintivo moto del cuore umano che spinge a desiderare il bene di sé e dell’altro invece di rincorrere l’illusione frustrante di un presuntuoso e irraggiungibile dominio sul reale.