Due formidabili pregiudizi sovrastano le nostre vite. Il primo riguarda la convinzione che le scienze empiriche assicurino le conoscenze necessarie per poter affrontare le differenti situazioni della vita e risolvere, conseguentemente, ogni problema. È il tentativo/illusione di cancellare dall’orizzonte dell’umano l’insondabilità di ciò che lo circonda. Il secondo riguarda la mitizzazione del sapere “spendibile”, una nuova ideologia, meno evidente rispetto alle ideologie del passato ma non meno totalizzante. Il sapere connesso all’esperienza del bello, dello stupore, dell’arricchimento interiore, alla capacità di riflessione silente viene confinato, nella migliore delle ipotesi, alla scelta personale singola.
Questi due pregiudizi incidono non solo sugli stili di vita quotidiani, ma hanno significative ricadute sulle regole educative del nostro tempo, da quelle scritte (si vedano i documenti, in specie, internazionali sull’educazione) e quelle, ancor più, non scritte.
Mai come oggi noi disponiamo in Italia di un’imponente documentazione circa il funzionamento della scuola accompagnata da un crescente processo di tecnologizzazione. Mai come oggi, essa ci appare tuttavia di qualità incerta e sicuramente di minore efficacia educativa rispetto alle attese. Per non parlare dell’insistenza con cui, ormai da almeno un paio di decenni, la scuola e l’università sono orientate verso il sapere “spendibile”, come tutti gli sforzi connessi con la diffusione della pedagogia delle competenze stanno dimostrando.
Quando i genitori e i figli debbono decidere in che senso orientare/ scegliere per il futuro si trovano a dover fare (il più delle volte inconsapevolmente) i conti con questi due pregiudizi: da una parte con l’illusione che i dati a disposizione possano avere un valore predittivo, dall’altra con la convinzione che siano validi soprattutto i saperi subito “spendibili”. Con esiti purtroppo insoddisfacenti: quasi il 20% dei ragazzi lascia la scuola subito dopo la terza media, oltre il 40% dei diplomati dichiara di aver sbagliato il tipo di studi e, se potesse tornare indietro, sceglierebbe un altro genere di studi.
Non c’è nessuna alchimia che garantisca contro il rischio di scelte infauste. La famiglia può tuttavia rappresentare il luogo più idoneo per liberarsi dal mito dell’efficienza = realizzazione personale. Non esiste altro luogo – neppure la scuola – che offra così tante opportunità per conoscere, approfondire, sperimentare le capacità dei figli e, di conseguenza, aiutarli a scegliere per il futuro. Se non ci sono alchimie miracolose che aiutino a scegliere dall’esterno, bisogna affidarsi a qualche semplice suggerimento basato sull’approssimazione dell’esperienza, non sulla certezza statistica.
1. È consigliabile non coltivare aspettative esagerate verso i figli, non programmarne la vita come un computer, non considerarli sempre “bambini” bisognosi di cure (magari anche quando sono ormai giovani universitari). Fin da piccoli si può concedere fiducia a condizione del corrispettivo della responsabilità.
2. È preferibile “scoprire” l’originalità e la peculiarità dei figli a mano a mano che crescono più in senso generale che specifico: per esempio le ragioni della loro timidezza o della loro capacità di stabilire subito relazioni sociali efficaci, la loro disposizione alla riflessione personale o la loro estroversione, la capacità di approfondimento oppure una certa superficialità (per scegliere la scuola più adatta non serve capire subito se “è bravo in italiano” oppure se “riesce bene in matematica”).
3. La scoperta dei figli è possibile soltanto se si trascorre con loro molto tempo fin da quando sono piccoli e se si stabilisce un rapporto continuo e profondo: ciascun essere umano ha bisogno prima di tutto di essere accolto, accettato, amato e si svela a chi gli assicura reciprocità di sentimento.
4. È bene non proiettare sui figli le aspettative dei genitori: è certo lecito esprimerle, ma sempre con l’avvertenza che i “figli non sono nostri” e che la paternità e la maternità sono esperienze “gratuite” che non prevedono una riconoscenza obbligata.
5. Esiste l’insondabile libertà dell’altro rispetto a cui il nostro dovere di adulti è quello di proporre e accompagnare.
Se collocate entro questo quadro educativo generale, le decisioni strategiche per il futuro – quale scuola, ad esempio, dopo la terza media – non si abbattono all’improvviso sulla famiglia con il loro carico di angosciante urgenza, ma sono l’esito di un lungo cammino e di una lenta scoperta dei figli. Le scelte più valide non sono quelle che si affidano alle mode del momento (liceo piuttosto che istituto professionale) o alle combinazioni statistiche rispetto ai possibili spazi del mercato del lavoro, ma quelle che germogliano durante gli anni, nella “familiarità” quotidiana, intendendo con questa espressione quel particolare clima che si respira tra persone che vivono non occasionalmente insieme.
In ogni scelta sussiste un margine di rischio, quell’imponderabile scarto tra ciò che scegliamo in un determinato momento e quello che sperimentiamo in conseguenza di quella scelta. Il rischio, del resto, è una parte irrinunciabile della nostra vita: lo possiamo vivere – quando si verifica – come un’inquietante incertezza, ma anche come una grande opportunità di crescita. Senza accettare il rischio nessuno diventa adulto e capace di scelte autonome.