“Le avventure di Lucia in quel soggiorno, si trovano avviluppate in un intrigo tenebroso di persona appartenente a una famiglia, come pare, molto potente, al tempo che l’autore scriveva”. È con queste parole che Manzoni, nel suo I promessi sposi, apre il sipario sulla storia di Gertrude, meglio conosciuta come “la Monaca di Monza”. Renzo, Agnese e Lucia hanno appena lasciato, nella mestizia, la loro casa e i loro luoghi natii dopo la malaugurata “notte degl’imbrogli e de’ sotterfugi”. La presenza autorevole di fra Cristoforo li ha appena fatti inginocchiare, in piena notte, nel mezzo della Chiesa a pregare per don Rodrigo, indirizzandoli poi verso due diversi luoghi: Renzo a Milano, Agnese e Lucia a Monza. Lucia ha appena intonato in cuor suo l'”addio monti”, piangendo in silenzio al fondo della barca che li ha trasportati al di là del lago.
È il momento, brutale e doloroso, della separazione fra i due promessi sposi. Ed è proprio a questo punto che, nella vicenda dei protagonisti, si innesta una nuova vicenda, quella di Gertrude. Si è in proposito parlato, a ragione, di un romanzo dentro il romanzo; si è anche parlato, forse meno giustamente, di una sorta di romanzo noir, un gothic romance inserito da Manzoni con un intento misto fra il gusto della rappresentazione tenebrosa del Male e l’interesse per l’analisi storico-sociologica di un fenomeno secentesco come quello delle monacazioni forzate.
Sicuramente, gli influssi letterari e culturali che hanno spinto Manzoni a tratteggiare in un certo modo la storia della monaca sono molteplici, e vanno giustamente tenuti in considerazione. Il fatto inoltre che la vicenda sia dedotta da un episodio realmente accaduto e ricavato dal “solito” Ripamonti (l’affaire relativo alla relazione fra Suor Virginia Maria, al secolo Marianna de Leyva, e Gian Paolo Osio, del quale sono stati pubblicati anche gli atti processuali) riveste la narrazione di dimensioni e valenze ulteriori. Ma se l’intento meramente storiografico o sociologico si addice giustificatamente alla corrispettiva narrazione all’interno del Fermo e Lucia (uno degli antecedenti del romanzo che conosciamo oggi), ne I promessi sposi siamo decisamente trasportati in un altro contesto, in mezzo ad un’altra trama di significazioni e di intenti. Basta andare a riprendere le parole di Manzoni stesso: dopo aver raccontato l’incontro — carico di tensioni, accenni, sguardi e non-detti — fra Lucia e la Monaca, l’autore ci dice che i discorsi di Gertrude con la giovane “divennero a poco a poco così strani, che, in vece di riferirli, noi crediam più opportuno di raccontar brevemente la storia antecedente di questa infelice; quel tanto cioè che basti a render ragione dell’insolito e del misterioso che abbiam veduto in lei, e a far comprendere i motivi della sua condotta, in quello che avvenne dopo”.
Si tratta di uno dei tanti passaggi diffusi per il romanzo che, nella loro brevità, come tessere di un mosaico sapientemente disegnato, ci conducono a comprendere il concetto di “storia” che anima la narrazione e l’opera manzoniana.
La storia, luogo di oppressione dei potenti sugli umili, non si raccorda in realtà — o non solo — attorno alle azioni dei grandi uomini, agli avvenimenti che vengono ricordati nei libri, alle sorti degli stati e degli imperi. La storia è fatta e percorsa innanzitutto da vicende umane, da sommovimenti di cuori, da passioni, scoperte, cambiamenti e decisioni, insomma da moti delle singole libertà umane. Se è così, la prospettiva si ribalta, e paradossalmente non esistono vite o vicende più importanti di altre, più degne di essere raccontate e più determinanti il corso del mondo. Non solo: nel “guazzabuglio” del cuore umano, di ogni cuore umano, può giungere, se lasciato entrare, Dio stesso, e attraverso di esso manifestarsi dentro le vicissitudini storiche di ogni tempo (fino a cambiarle e imprimervi nuove direzioni).
Il compito della letteratura a questo punto, per Manzoni, è uno dei più alti e nobili che si possano immaginare: non è quello di raccontare storie inventate, ma di scandagliare sapientemente i cuori degli uomini e delle donne di ogni tempo. “L’essenza della poesia non consiste nell’inventare dei fatti… Ma, si dirà forse, se si toglie al poeta ciò che lo distingue dallo storico, il diritto di inventare i fatti, che cosa gli resta? La poesia; sì, la poesia. Perché, infine, che cosa ci dà la storia? Avvenimenti che non sono, per così dire, conosciuti che nella loro esteriorità; ciò che gli uomini hanno fatto: ma quello che hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro decisioni e i loro progetti, i successi e gli insuccessi loro… tutto questo, praticamente, è taciuto dalla storia; e tutto questo è il regno della poesia” (dalla Lettre à Monsieur Chauvet, 1820).
I promessi sposi non è la storia della lotta fra il mondo dei “buoni” e il mondo dei “cattivi”, dei “prepotenti”: è un grande scenario all’interno del quale si dipanano le vicende di diversi e i percorsi umani di diversi personaggi, ognuno alle prese con le difficoltà della realtà, ognuno provvisto della propria personalità, del proprio carattere, ognuno chiamato a fare i conti con la propria libertà e con la libertà di Dio. Bene e male si agitano nell’intimo di ogni personaggio, da Lucia a don Rodrigo, in una strenua lotta dall’esito mai scontato. È per questo che la Gertrude dipinta da Manzoni non è l’incarnazione del male, né tantomeno una mera vittima innocente di maligni meccanismi esterni. La sua vicenda è semplicemente un grande, solenne inno alla sacralità della libertà umana; e questo sotto due aspetti.
In primo luogo, è una sorta di ammonimento a chiunque si trovi (genitore, educatore, amico…) ad avere a che fare con la libertà altrui: la sottile e autoritaria perseveranza del padre della Monaca, la sua acuta pressione psicologica ci avverte del rischio che si corre, anche quando si sia animati dalle migliori intenzioni, nell’aggirare, nell’ignorare o nel forzare quel principio sacro e inviolabile che è la libertà della persona che abbiamo davanti. È da brividi leggere il momento in cui, in Gertrude, sorge la consapevolezza della necessità della propria libera scelta, del proprio consenso alla strada che le era stata imposta: affascinata dai discorsi delle sue compagne destinate al matrimonio, “per non restare al di sotto di quelle sue compagne, e per condiscendere nello stesso tempo al suo nuovo genio, rispondeva che, alla fin de’ conti, nessuno le poteva mettere il velo in capo senza il suo consenso, che anche lei poteva maritarsi, abitare un palazzo, godersi il mondo, e meglio di tutte loro; che lo poteva, pur che l’avesse voluto, che lo vorrebbe, che lo voleva; e lo voleva in fatti. L’idea della necessità del suo consenso, idea che, fino a quel tempo, era stata come inosservata e rannicchiata in un angolo della sua mente, si sviluppò allora, e si manifestò, con tutta la sua importanza”. Parole che rintoccano solenni, una dopo l’altra. In un’epoca come la nostra, in cui la libertà sembra il bene più invocato e al quale nessuno desidera rinunciare, l’unico che sembra veramente resistere universalmente, le parole di Manzoni risuonano secondo una modernità impressionante.
Ma questo è solo un lato della questione. Se è vero che la libertà individuale è inviolabile, e le circostanze della vita di Gertrude sono un appassionato grido in questo senso, per Manzoni è altrettanto palese che, in fondo, non esiste circostanza in cui questa libertà possa essere del tutto sottratta all’essere umano, tanto da non poter più essere chiamata in causa. La soffocante spirale di avvenimenti dentro cui la sventurata si trova avviluppata, che alla lettura toglie davvero il fiato, non avviene senza la collaborazione di Gertrude, senza la connivenza della sua indecisione e del suo continuo rinvio; non solo, anche una volta compiuta la decisione irrevocabile, Manzoni è sicuro che, per una di quelle “facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana”, la Monaca avrebbe potuto godere comunque di “tutte le gioie della vocazione, […] camminare con sicurezza e di buona voglia, e arrivar lietamente a un lieto fine” (vale la pena rileggere tutto il bellissimo passaggio). “Ma l’infelice si dibatteva in vece sotto il giogo, e così ne sentiva più forte il peso e le scosse”: con uno dei suoi grandi “ma”, che come macigni portano tutto il peso, la responsabilità della libertà umana e della libertà di Dio, Manzoni sancisce la libera scelta di Gertrude di rimanere incatenata alla sua triste condizione. La stessa tremenda non-decisione per il bene, che diventa libera scelta per il male, riecheggia angosciosamente nelle righe che raccontano il momento in cui Gertrude acconsente al rapimento di Lucia, la ragazza che tanto l’aveva affascinata (anche commossa?) e alla quale aveva dedicato tante attenzioni nella speranza di rimediare ai propri crimini precedenti: “La proposta [del rapimento] riuscì spaventosa a Gertrude. Perder Lucia per un caso impreveduto, senza colpa, le sarebbe parsa una sventura, una punizione amara: e le veniva comandato di privarsene con una scellerata perfidia, di cambiare in un nuovo rimorso un mezzo di espiazione. La sventurata tentò tutte le strade per esimersi dall’orribile comando; tutte, fuorché la sola ch’era sicura, e che le stava pur sempre aperta davanti. Il delitto è un padrone rigido e inflessibile, contro cui non divien forte se non chi se ne ribella interamente. A questo Gertrude non voleva risolversi: e ubbidì”.
Se inizialmente Gertrude non decide (di reagire all’imposizione della monacazione), in seguito sceglie di dibattersi sotto al giogo della sua cattività, passando poi a “rispondere” ai richiami di Egidio, fino a “ubbidire”, schiava di una potestà a cui si è consapevolmente legata. Se dunque la storia della Monaca di Monza ci lascia un senso di amarezza, ad essa rispondono positivamente tante fra le altre vicende personali del romanzo (prima fra tutte quella dell’Innominato, lo stesso “prepotente” che ha intimato il rapimento), che testimoniano come per Manzoni la salvezza di Dio possieda la necessità inderogabile di passare e manifestarsi attraverso la libertà di coloro a cui si fa incontro.