Esiste una verità nell’opera narrativa di immaginazione? Come l’invenzione del romanzo può diventare qualcosa di più rispetto a una proposta di evasione dalla realtà? In che modo deve essere considerato il rapporto tra letteratura e religione?
In un tempo come il nostro, nel quale a una diffusa crisi del senso originario di cultura (intesa come domanda di senso sulla propria vita) non sembra corrispondere una diminuzione della quantità di prodotti editoriali di narrativa (almeno a giudicare dalle novità presenti nelle librerie e dall’ormai affermata diffusione popolare delle classifiche), porsi queste domande significa non avere ancora rinunciato al gusto personale per la lettura e a una immedesimazione nel racconto che non sia soltanto frutto di suggestione romantica. Ma significa anche dotarsi di strumenti intellettuali che (solo per limitarsi a un esempio) portano a non poter vedere in un romanzo come il piuttosto noto Possession (1990; Possessione, Einaudi 1992) della scrittrice inglese Antonia Susan Byatt (1936-) esclusivamente una “storia romantica”, come pure recita il sottotitolo. Basta infatti inoltrarsi oltre le prime quaranta pagine, che raccontano di come il protagonista abbia scoperto alcune lettere di un immaginario poeta vittoriano conservate alla London Library, per rendersi conto che sotto la superficie della storia d’amore ricostruita attraverso le missive si muove qualcos’altro. Ecco allora che l’autrice riporta un passaggio di una lettera che fa riferimento a quello scambio epistolare, nel quale si accenna a una disquisizione di un accademico liberale sui fautori del trattarianesimo.
Il che ci conduce immediatamente a John Henry Newman (1801-1890) in quanto il trattarianesimo era la corrente culturale iniziata, alla metà degli anni Trenta dell’Ottocento, dal Beato inglese nel contesto del Movimento di Oxford e attraverso la quale egli cominciò una lettura critica dell’anglicanesimo che avrebbe portato lui e molti suoi amici a chiedere di essere ammessi nella Chiesa di Roma. Ma questo aggancio storico non servirebbe a molto, se la corrispondenza amorosa immaginata dalla Byatt non si snodasse anche in un’accesa discussione che vede il poeta Randolph Henry Ash difendere la tesi della presenza di verità eterne in qualsiasi racconto, mentre Christabel LaMotte dimostrare una visione della fede fondata esclusivamente sulla Rivelazione.
Marietti ha rimesso quest’anno in libreria un’opera importante del 1978 (proposta per la prima volta in italiano dalla Jaca Book nel 1985) sugli Inklings (letteralmente “prime stesure”), il circolo culturale che si sviluppò a Oxford tra la metà degli anni Trenta e il 1949 tra Clive Staples Lewis (1898-1963), John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973), Charles Williams (1886-1945): l’autore, Humphrey Carpenter (1946-2005), noto anche per aver curato una raccolta di lettere di Tolkien assieme a Christopher (1924-), uno dei figli dello scrittore (The Letters of J. R. R. Tolkien, 1981; La realtà in trasparenza, Rusconi 1990), descrive il rapporto della letteratura con la religione come materiale di costruzione della grandiosa opera letteraria dei tre autori (Humphrey Carpenter, Gli Inklings. C. S. Lewis. J.R.R. Tolkien, Charles Williams e i loro amici, Marietti, Genova-Milano 2011)
Tolkien, cattolico, si era formato alla scuola di Newman per aver frequentato, prima di entrare a Oxford, la Oratory Public School fondata dal Beato inglese presso l’Oratorio di Birmingham; mentre Lewis, convertitosi dall’ateismo all’anglicanesimo anche grazie all’amicizia con Tolkien (ma senza compiere il passaggio al cattolicesimo), venne molto influenzato dalla visione di Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), anch’egli erede spirituale di Newman e diventato cattolico nel 1922. Quanto a Charles Williams, il redattore della Oxford University Press trasferitosi da Londra a Oxford assieme a tutto il personale dell’Editrice allo scoppio della seconda guerra mondiale, la sua visione antroposofica dell’uomo (maturata all’interno di un anglicanesimo di appartenenza) non gli impedì di diventare, grazie alla enorme stima che Lewis aveva nei suoi confronti, il terzo pilastro degli Inklings.
Si trattò di un’esperienza spontanea, nell’ambito della quale il cattolicissimo Tolkien poté elaborare un’opera come Il Signore degli Anelli (leggendone i capitoli alle riunioni del giovedì sera che si tenevano nelle stanze di Lewis al Magdalen College), pur non condividendo l’impostazione di fondo di Williams e nemmeno certe posizioni di Lewis. È molto verosimile che almeno Tolkien abbia pronunciato agli Inklings il nome di John Henry Newman (che con il suo Loss and Gain del 1848 fu l’iniziatore della letteratura cattolica in lingua inglese, una tradizione della quale Tolkien voleva essere consapevole continuatore), soprattutto se si pensa all’idea tolkeniana dell’assunzione del mito come storia in letteratura: una visione che può essere ricondotta, almeno in parte, a quella newmaniana della ragione non dimostrativa e della narrazione poetica come trasmissione di verità non astratte.
Ma nel libro di Carpenter non c’è soltanto la ricostruzione storica di un’esperienza fondamentale per la letteratura inglese ed europea, in quanto, a fare da cornice alle riunioni al Magdalen College (è bene comunque ricordare anche quelle ai pubs “Eagle and Child” e “Lamb and Flag”), era l’attività di ricerca e di didattica accademica di Lewis e di Tolkien e di diversi loro amici che facevano parte o gravitavano attorno agli Inklings: tutor di inglese al Magdalen (e dal 1954 professore di inglese medievale e rinascimentale a Cambridge) il primo, professore di Inglese antico e di lingua e letteratura inglese a Oxford il secondo. Si trattava di un ambiente molto vivace e dai toni prevalentemente informali, all’interno del quale ci si confrontava su differenze di impostazione anche rilevanti (ad esempio sull’importanza della letteratura medievale rispetto a quella moderna e contemporanea o sul valore del culto cattolico) in un dialogo che veniva reso possibile dalla comune tensione alla ricerca della verità.
Il volume di Carpenter costituisce quindi anche un contributo storico di eccezionale interesse su un aspetto reale di vita universitaria, e quel ventennio oxoniense non può non apparirci oggi come un richiamo, quasi un appello, a ciò che l’università dovrebbe diventare per rispondere alla sua autentica vocazione.