C’era una volta un certo William Mulholland (1855-1935), nato a Belfast da genitori di Dublino, che fecero ritorno nella capitale irlandese pochi anni dopo la nascita del pargolo. Gli orizzonti biografici di Mulholland – che, nel 1990, Life Magazine incluse tra i cento americani più importanti del ventesimo secolo – si fecero statunitensi nel 1877 quando, scappato di casa, si ritrovò dopo alterne vicende nello scenario californiano di Los Angeles. La sua iniziale “professione” di marinaio si incanalò presto e con grande profitto nel settore pubblico dell’ingegneria idraulica e, in seguito, in quello dell’ingegneria idroelettrica. Tuttavia, il 12 marzo 1928 fu il devastante crollo dell’imponente San Francis Dam, costruita proprio sotto la supervisione di Mulholland, a decretare la fine della sua carriera. A nulla valse il tentativo di riabilitarsi in cui egli si impegnò, anche con un’autobiografia che non poté mai completare.
La tragica fine della sua storia personale di emigrato irlandese di successo – che si intravede in filigrana nella trama del film Chinatown (1974) di Polanski – sembra riecheggiare – mutatis mutandis – non pochi dei tratti sciagurati di altre due mitologie economico-industriali della novecentesca epica nazionale irlandese, sia essa elaborata in patria o all’estero: da un lato, lo sciagurato viaggio del Titanic nel 1912, costruito a Belfast come sogno di riscossa e affondato nell’incubo di un’impossibile rinascita; dall’altro, la bolla psicotropa della Celtic Tyger, che intossicò la Repubblica d’Irlanda tra il 1995 ed il 2008 costringendola in questi ultimi anni a un’estenuante esercizio disintossicante di virtù finanziaria ed economica.
È “imparentato” narrativamente con questo Mulholland uno dei principali personaggi del romanzo The Lemur, pubblicato dal giallista irlandese Benjamin Black nel 2008 e appena proposto in versione italiana da Guanda nell’anno in corso con il non efficacissimo titolo Il buon informatore? Con questo Mulholland o con un altro Mulholland – ad esempio, un certo John Mulholland (1898-1970), che fu celebrato prestigiatore statunitense e altrettanto efficiente collaboratore della Cia sotto copertura? O, addirittura, con entrambi i Mulholland citati, visto che, ne Il buon informatore, William Pius “Big Bill” (Billuns per i familiari) Mulholland è non solo “irlandese di South Boston, seconda generazione, […] reclutato dalla Cia [e] operativo alla fine degli anni Quaranta” (p. 9), ma anche “personificazione del rude individualista” (p. 20) che, “dopo aver lasciato la Cia”, conquista un posto di primo piano nel “settore delle telecomunicazioni allora in espansione” (p. 10)?
Intendiamoci bene, dopo questo avvio di recensione forse inatteso. Non si tratta soltanto di individuare una fonte storica del romanzo in questione, per poterne definire – tra l’altro – sia l’eventuale epistemologia narrativa di impianto realistico (con le connesse conseguenze sul piano delle complessive strategie narratologiche), sia il profilo del lettore interno a cui il narratore intende rivolgersi; ecc. ecc. C’è di più e di meglio rispetto a queste pur fondamentali dimensioni.
Si tratta di entrare nella logica di un romanzo per leggerlo con maggiore soddisfazione e con più consapevole responsabilità. Il che si traduce innanzitutto nel non prendere sottogamba l’identità dello scrittore che scrive qui sotto lo pseudonimo Benjamin Black come non potrebbe scrivere altrove sotto il suo vero nome di John Banville: e, a giudizio sindacabilissimo di chi scrive, scrive in questi anni come Black con un’efficacia letteraria – e con una palese autogratificazione personale – che, come Banville, non riesce attualmente a donare ai suoi lettori.
In questo come in altri casi analoghi, è pericoloso confondere pseudonimo e nome anagrafico, anche se, come ha detto lo stesso Banville a Mario Baudino (La Stampa/Tuttolibri, 11 febbraio 2013), è stato il presidente e direttore editoriale di Guanda a chiedergli di “mantenere il nome vero in copertina, visto che già avevano lavorato così tanto in casa editrice alla mia reputazione letteraria; […] non c’era ragione per dirgli di no”. Eppure, caro Brioschi, nonostante la prevedibile condiscendenza dello scrittore, forse qualche legittima ragione – letteraria, editoriale e commerciale − c’era, se la sua richiesta non ha incontrato subito il favore dell’editore inglese e dell’agente della premiata ditta Banville/Black…
Il buon informatore di Benjamin Black si legge tutto d’un fiato, persino più voracemente delle altre fatiche creative pubblicate sotto lo stesso pen name. È questo l’esito delle scarne linee cronachistiche della realtà che ritrae, della sua scrittura psicologica (talora prevedibilmente) netta e decisa, della chiarezza adamantina del mondo noir che tratteggia (che paradosso metaforico!). Non c’è spazio tra le sue pagine per le indeterminatezze spazio-temporali, le ambiguità ontologiche e le incertezze etico-morali che l’ultimo Banville ha invece proposto, ad esempio, nei recenti Isola con fantasmi (2009), La lettera di Newton (2010), Teoria degli infiniti (2011).
Il protagonista de Il buon informatore, il celebre giornalista John Glass, dublinese d’origine ma residente a Manhattan, non riesce a rispettare la “trasparenza” dell’identità onomastica (con potenziali radici nella realtà storica) che lo caratterizza: non gli riesce né nelle sue relazioni familiari, né nell’incarico apparentemente professionale di scrivere la “pittoresca storia della sua vita” (p. 31) che il suocero “Big Bill Mulholland” gli affida e che a poco a poco pare assumere i tratti (involontari?) di una torbida profferta di complicità. La sua sarà un’accettazione riluttante che, pur non giungendo mai all’atto concreto della scrittura, dimostrerà che, ben più che la gola e la spada, può ucciderne la penna, persino quando irresoluta, inattiva e silente.
All’inizio delle sue ricerche, Glass cercherà la collaborazione di un “researcher” – termine, questo, che, nella traduzione Guanda, viene reso con tale costanza con la formula “cacciatore d’informazioni” da indurre il lettore attento a chiedersi come mai la stessa formula non sia stata impiegata in copertina al posto della fuorviante opzione “buon informatore” (non sorretta, peraltro, dalla presenza del sostantivo “informer” nel testo originale).
Tuttavia, sulla scena testuale del noir di Black, Dylan Riley, il personaggio in questione, non è solo un “researcher”: non a caso, il protagonista John Glass intuisce che il suo interlocutore è anche qualcosa di più e di diverso che può essere reso soltanto con una straniante metafora zoomorfa, non insolita nelle consuetudini onomastiche della letteratura noir e giallistica. Riley “uno scoiattolo” (p. 7), si chiede Glass? No, “un lemure! Ecco qual era l’animale cui assomigliava Dylan Riley” (p. 15): un animale che non è un “roditore esotico” (p. 5) e il cui “nome viene dal latino lemures, che significa spettri, fantasmi” (p. 45).
Nonostante la sua (relativamente) breve apparizione nella narrazione di Black e proprio in virtù della sua caratterizzazione zoomorfa, il “researcher” vi giganteggia in almeno tre forme assai efficaci e di rara intensità strategica dal punto di vista narrativo: quella reale (umana) del “ragazzo molto alto, magro, con la testa troppo piccola per la sua corporatura e un pomo d’Adamo grande come una palla da golf” (p. 5); quella metaforica (zoomorfa) del piccolo primate solitario e notturno dal “morso” (p. 26) fastidioso, di cui l’etologo e scrittore britannico Gerald Durrell (1925-1995) descrisse gli “occhi tondi ed ipnotici” e “le nere mani […] simili a quelle di un pianista che suona un complicato pezzo di Chopin”; quella simbolica dell’inquietante ed invincibile spettro che gli antichi Romani cercavano di esorcizzare con il rito apotropaico delle Lemurie.
Caro Brioschi, non bastavano questi geniali dati testuali per rendere l’originaria titolazione inglese di The Lemur con un comodo ma possente Il Lemure nella versione italiana appena pubblicata dalla sua prestigiosa casa editrice, rendendo così maggiore giustizia tanto al grande scrittore irlandese, quanto ai suoi (e vostri) fedeli lettori nostrani?
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Oggi 4 marzo alle ore 18.30, al Bistrò del Tempo Ritrovato (via Foppa 4, Milano), nell’ambito del quarto incontro dell’Irish Club, 2012-2013, si discuterà Il buon informatore di Benjamin Black (John Banville) (Guanda, 2013) con Enrico Reggiani (suo il blog letterario Irish Literature and other literaria, http://wbyeats.wordpress.com/)