Alla fine hanno trovato un accordo da 14,7 miliardi di dollari. Charles Breyer, giudice della Corte Distrettuale degli Stati Uniti per il distretto settentrionale della California ha approvato definitivamente il patteggiamento tra Volkswagen e i privati rappresentati dal Comitato Direttivo (Plaintiffs’ Steering Committee, PSC) nominato dalla Corte per risolvere le questioni civili relative ai veicoli Volkswagen e Audi con motore Diesel 2.0 TDI negli Stati Uniti. Allo stesso tempo, il Giudice Breyer ha approvato anche il “Consent Decree” tra Volkswagen e il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti per conto dell’Environmental Protection Agency (EPA) e dello Stato della California tramite il California Air Resources Board (CARB) e il Procuratore Generale della California; e il “Consent Order” tra Volkswagen e la U.S. Federal Trade Commission. Tutti e tre gli accordi erano stati annunciati in precedenza. Un maxi patteggiamento da 14,7 miliardi di dollari che prevede tra l’altro anche il riacquisto da parte della casa tedesca di 475.000 auto a partire da novembre (i dettagli nell’aggiornamento a fine articolo).
Più che a un costruttore di automobili, il gruppo Volkswagen, da un anno a questa parte, assomiglia a un bancomat. Un enorme, smisurato bancomat. Migliaia di persone e di istituzioni, con altrettanti stuoli di avvocati al seguito, sono davanti, metaforicamente, ai cancelli di Wolfsburg, in attesa di prelevare, a torto o a ragione, denaro contante. E non stiamo parlando di piccole cifre. L’accordo americano, che ha visto i tedeschi sborsare quasi 15 miliardi di euro per tacitare possessori delle auto con le centraline taroccate, Dipartimento di Giustizia Usa ed Ente di protezione ambientale (Epa), ha aperto le cateratte. Gli appetiti sono stati alimentati dall’accordo che il gruppo tedesco ha raggiunto per risarcire i suoi 652 concessionari negli Usa che hanno portato a casa, secondo indiscrezioni perché la cifra non è stata resa pubblica, 1,2 miliardi di dollari, quasi un paio di milioni di dollari a testa. Centinaia di istituzioni private e pubbliche, migliaia di associazioni varie, e centinaia di migliaia di clienti hanno consultato i propri legali per capire se si poteva “mungere” qualcosa.
L’ultimo a chiedere soldi in ordine di apparizione è il più grande fondo di investimento del mondo, Blackrock, che ha in portafoglio il 3,35% di Volkswagen e ha deciso di fare causa. Prima di lui aveva scelto la stessa strada il fondo sovrano norvegese (1,64% del capitale) e secondo il Financial Times il costruttore tedesco è coinvolto anche in altre richieste da parte di investitori che hanno depositato circa 380 cause nel distretto di Braunschweig, a cui fa capo Wolfsburg, e Volkswagen potrebbe dover rispondere a richieste per un importo complessivo variabile tra i 5 e gli 8 miliardi di euro.
Se i tuoi azionisti ti fanno causa, di solito, hai toccato il fondo, ma in realtà in Corea del Sud va anche peggio. Il ministero dell’Ambiente locale ha prima cancellato le certificazioni della metà delle auto vendute dal gruppo dopo il 2007 e poi, semplicemente, ha revocato l’omologazione di quasi tutte le vetture del Gruppo Volkswagen, accusandolo di aver falsificato i documenti relativi ai livelli di emissioni. Per riottenerle ci vorrà molto tempo e, nel frattempo, auto non se ne vendono più. Per i dirigenti locali non è neanche il problema principale perché sono soprattutto impegnati a non finire in galera, visto che un loro collega è stato raggiunto da un mandato d’arresto per il dieselgate. Sì, perché stanno arrivando al pettine anche le azioni di giustizia penale aperte. In America è comparso anche il primo pentito “collaboratore di giustizia”: un ingegnere ex dipendente Volkswagen, membro di un gruppo di dirigenti legati da un patto di segretezza, ha ammesso che il costruttore tedesco avrebbe cominciato a sviluppare il software incriminato nel 2006 e sarebbe stato costretto a utilizzarlo perché i limiti delle emissioni imposti oltreoceano erano impossibili da rispettare, almeno a costi accettabili. Piove sul bagnato.
Volkswagen sta cercando di far cadere ogni imputazione penale, ma se l’impresa dovesse riuscire costerebbe una follia perché non c’è Paese al mondo, dal Brasile alla Francia, dalla Germania all’Australia, all’Inghilterra in cui le Procure, i ministeri, le agenzie ambientali, le associazioni dei consumatori non stiano lavorando o non si apprestino a farlo, con rinnovato vigore, se dovesse esserci il profumo dei soldi e di accordi extragiudiziari favorevoli.
Qualcuno ha cercato di immaginare quanto costerà alla fine il trucco del software che limita le emissioni al gigante tedesco. Le stime più ottimistiche parlano di 25 miliardi, quelle più pessimistiche di 50, ma nessuna di queste previsioni tiene probabilmente conto dell’attivismo della Commissione europea, che è a guida tedesca solo quando è comodo dirlo e che non ha nascosto di mal digerire le differenze di trattamento tra i clienti americani e quelli europei.
Aggiornamento (26 ottobre 2016)
«L’approvazione definitiva dell’accordo per i 2.0 TDI è una pietra miliare importante nel nostro percorso per assestare la situazione negli Stati Uniti, e apprezziamo gli sforzi di tutte le parti coinvolte. Volkswagen è impegnata ad assicurare che ora il programma per i Clienti si svolga nella maniera più fluida possibile, e per garantire ciò abbiamo dedicato significative risorse», ha dichiarato Hinrich J. Woebcken, Presidente e CEO di Volkswagen Group of America, Inc. Di fatto, la partita è tutt’altro che chiusa: Volkswagen rimane concentrata sulla risoluzione di altre questioni in sospeso negli Stati Uniti
E continua a lavorare per raggiungere un accordo con i possessori di vetture Diesel 3.0 TDI V6.
L’implementazione del programma per i 2.0 TDI inizierà immediatamente. I clienti aventi diritto possono presentare richiesta prenotandosi al link
www.VWCourtSettlement.com e fissando un appuntamento con gli specialisti designati presso le concessionarie. I proprietari o locatari potranno scegliere
Quanto preferiscono tra il riacquisto o la cessazione anticipata del leasing e
L’implementazione di un aggiornamento tecnico approvato per il loro veicolo (se e quando sarà disponibile). Volkswagen effettuerà anche pagamenti in contanti agli attuali, e in alcuni casi precedenti, proprietari e locatari.
Volkswagen ha inoltre concordato il versamento di 2,7 miliardi di dollari in tre anni a un fondo fiduciario ambientale, gestito da un amministratore nominato dalla Corte, per compensare le emissioni di ossido di azoto in eccedenza e l’investimento di 2,0 miliardi di dollari in dieci anni in infrastrutture per veicoli a emissioni zero e in iniziative di sensibilizzazione.
La casa di Volksburg si è già premurata di mettere le mani avanti: nei loro termini, questi accordi non sono applicabili né possono comportare simili obblighi di Volkswagen in nessun sistema giuridico al di fuori degli Stati Uniti. Le normative sulle emissioni negli Usa sono molto più severe di quelle vigenti in altri Paesi del mondo, e anche le varianti di motore differiscono
Significativamente. Ciò rende lo sviluppo di soluzioni tecniche negli Stati Uniti più impegnativo rispetto all’Europa e ad altre regioni, dove l’implementazione del programma approvato per l’aggiornamento di veicoli TDI per il pieno ottemperamento degli standard UN/ECE ed europei sulle emissioni è già iniziata in accordo con le Autorità competenti.
– Vera Jourova, commissaria alla Giustizia e alla Tutela dei Consumatori, non ha, badate bene, sottolineato l’assurdità di un rimborso miliardario negli Stati Uniti, ma ha dichiarato di essere a disposizione per coordinare tutte le azioni che i singoli stati stanno facendo per eliminare le disparità con gli Usa, creando un fronte comune. La commissaria ha incontrato tutte le associazioni che l’hanno contattata. Si è parlato, naturalmente, di risarcimenti e, a spanne, se per gli Stati Uniti sono stati spesi 35 mila euro per ogni auto taroccata, in Europa, dove ne sono state vendute 8,5 milioni, si parla di quasi 300 miliardi, molto di più di quanto valga l’azienda. L’unica soluzione sarebbe la bancarotta. Per una delle aziende tra le più grandi al mondo, con oltre cento impianti produttivi in mezzo mondo e centinaia di miglia di dipendenti, un migliaio dei quali in Italia.
– E facciamo fallire un’azienda del genere, la terza per attivo al mondo, per una truffa quando un concorrente, General Motors, ha dovuto sborsare in tutto 900 milioni di euro per un blocchetto d’accensione difettoso che in 10 anni aveva ucciso 124 persone e fatto 274 feriti solo negli Stati Uniti? Allora perché non ripristinare la pena di morte per l’ex ceo, Martin Winterkorn, per tutto il consiglio d’amministrazione e per qualsiasi persona fosse a conoscenza del trucchetto e lo tenesse segreto? Saltato il principio giuridico della pena commisurata al reato allora vale tutto. Che si sappia, nessuno è morto per il software che limita le emissioni dei motori diesel Volkswagen, ma qui quella che resta di restarci secca è una mega azienda che dà da vivere, se teniamo conto anche dei concessionari e delle strutture locali, a centinaia di migliaia di famiglie su tutto il pianeta.
– Se le batoste economiche sono importanti perché pregiudicano i bilanci, non meno significative sono le conseguenze commerciali del dieselgate. Le vendite del colosso di Wolfsburg negli Usa sono crollate del 15% e in Europa, in un mercato che spinge al rialzo le immatricolazioni, sono quasi ferme a livello dello scorso anno, con il marchio Volkswagen, il pane e burro del Gruppo tedesco, addirittura in calo. Se il gruppo tedesco non fosse fortissimo sul fronte delle immatricolazioni e delle percentuali di guadagno, con tre joint venture con altrettante aziende locali, saremmo a un passo dal disastro.
Il rallentamento delle vendite in Europa è colpa della cattiva reputazione che si perde in fretta e si fa fatica a recuperare. Ma è anche colpa di un’azienda impegnata più sul fronte legale che su quello produttivo. E di un vertice incapace di mettere in piedi strategie credibili. Nel 2015 Martin Winterkorn, il maggior responsabile del dieselgate, aveva annunciato di voler di immettere sul mercato oltre cinquanta nuovi modelli in dodici mesi, di cui solo un paio elettrici. Quest’anno l’attuale ceo di Volkswagen Matthias Mueller, durante l’assemblea di bilancio, non ha detto una parola sui modelli tradizionali, mentre un portavoce della casa automobilistica tedesca, negli stessi giorni, ha annunciato l’addio al progetto Taigun, il piccolo crossover esibito per la prima volta nel 2012 in Brasile come concept. Un’occasione persa per introdursi in un segmento che sta facendo le fortune di molti concorrenti. Mueller, il nuovo ceo, ha invece promesso che il gruppo punterà tutto sui veicoli elettrici promettendo di sfornarne una trentina nei prossimi otto anni.
– Questa strategia somiglia più a un libro dei sogni che a un piano industriale. L’ex numero uno di Porsche non può non sapere che il mercato di questo tipo di auto ancora non esiste né in Europa, né nel resto del mondo. E non può non sapere che la maggior parte dei costruttori dichiara che produrre e vendere auto elettriche costa più di quanto i clienti sono disposti a spendere. Costruire auto che rischiano di essere vendute in perdita è un ottimo biglietto da visita per presentarsi davanti alle agenzie ambientali o per recuperare un po’ di credibilità presso i clienti più ecologisti, ma il business vero adesso, e ancora per molti anni, sta da un’altra parte. Oggi nel mondo vengono venduti più 500.000 veicoli elettrici all’anno. Secondo la maggior parte degli studi, diventeranno 2-3 milioni nel 2021 e 5 milioni quattro anni dopo. L’obiettivo di Mueller è venderne 3 milioni nel 2025. Insomma, prevede di avere il 60% del mercato mondiale delle auto elettriche. O il dirigente tedesco sa qualcosa che il resto del mondo non sa, oppure nelle sue dichiarazioni c’è qualcosa non solo di velleitario, ma di pericoloso per l’azienda tedesca. Gli investimenti non sono infiniti, anzi il gruppo, per anni in testa alle classifiche mondiali in questo settore, ha già dichiarato di averli ridotti di 1 miliardo di euro e ha annunciato che scenderanno di quasi un punto percentuale sul fatturato nei prossimi anni. E puntare tutto su un cavallo sbagliato rischia di essere molto pericoloso.