Per chi insegna e opera nella scuola, il Meeting è sempre una riserva unica di suggestioni, indicazioni, fonti documentarie di ogni tipo.
Rispetto ad una materia tanto negletta, quanto importante come la storia, il Meeting ha un discorso aperto che prosegue di anno in anno, non smentendosi in questa edizione.
Prendiamo, per esempio, la mostra sull’antica Siria (Dal profondo del Tempo: all’origine della comunicazione e della comunità nell’antica Siria), che poi non è solo sugli scavi in Siria, ma anche sulle basilari scoperte archeologiche avvenute nella Georgia meridionale (esattamente in un sito corrispondente all’odierna città di Dmanisi). Per molti motivi il percorso offerto, che spiega la sostanza delle scoperte accadute in questi luoghi, mette in discussione una certa idea di storia, che è quella spesso insegnata nelle scuole, intesa come un caos senza senso di date, termini e personaggi dove dominano le azioni peggiori dell’uomo (guerre, imperialismi, discriminazioni di ogni genere).
Inutile negare che ci siano le guerre e le conquiste, ma il nucleo fondante della storia risiede in uno strato più profondo rispetto a certi epifenomeni. Esattamente nella capacità dell’uomo di comunicare ai propri simili, generazione dopo generazione, la propria capacità di trascendere i semplici meccanismi della riproducibilità. L’uomo non è una cosa né un animale. Ha una coscienza di sé. Le straordinarie scoperte archeologiche di Dmanisi dimostrano che questa coscienza di sé si manifesta già un milione e 800mila anni fa nella forma della cura dell’altro. Una delle più straordinarie scoperte degli ultimi anni è, infatti, quella di un teschio appartenente ad un nostro progenitore anziano e sdentato che fu accudito e nutrito fino alla fine della sua esistenza dalla comunità del villaggio o gruppo del quale faceva parte: un milione e 800mila anni fa, in un luogo che da pochi decenni è uscito dall’ombra per merito di insigni archeologi.
All’origine di quell’atto di riverenza, suggerisce la mostra, c’è una fondamentale consapevolezza della mortalità, cioè l’uomo presagisce la morte: la propria e quella dei propri simili. Prima ancora della nascita del pensiero logico e della scrittura, l’uomo possiede la dote innata di pro-gettarsi, di anticiparsi tramite l’immaginazione e il desiderio. Si verifica, in altri termini, una presa di coscienza progettuale che non solo inizia a ricordare il passato ma può anche presagire il futuro. La tradizione culturale, cioè la trasmissione di questa visione complessa di sé, è da subito. E l’uomo è tutto impegnato a comunicare ad altri questa struttura di sé, essere mortale che presagisce, come il bene più prezioso. Questo è il filo che ci unisce al profondo del tempo, una vera luce in fondo al tunnel che abbiamo alle spalle.
Poi ecco che arrivano le scoperte legate alla Siria e al sito di Urkesh, antica città dell’ancora sottovalutata (nei libri di storia) civiltà degli hurriti. Cosa hanno a che fare con noi questi anatolici che iniziarono a costruire una civiltà sei millenni di anni fa? La mostra suggerisce che mentre l’uomo di Dmanisi (più propriamente un “ominino”) esprimeva la propria solidarietà entro piccoli gruppi basati sulla conoscenza personale reciproca, la città (come Urkesh) introduce un nuovo modo di vivere insieme: ci si sente solidali all’interno del gruppo anche senza conoscersi. Nasce poi la scrittura, l’uomo si rappresenta nell’arte, esprime nel palazzo e nel culti della regalità il proprio legame con il cielo. La società determina anche funzioni all’interno dei raggruppamenti. Ogni individuo occupa una casella funzionale che esige un controllo dall’alto, qualcuno che comandi, e nello stesso tempo si esplica in impressionanti forme di controllo della natura (le imponenti strutture architettoniche delle civiltà mesopotamiche, da quella accadica a quella sumerica, non esclusa appunto quella hurrita). Ma l’uomo non è naturalmente buono e molto presto cominciano i guai. La funzionalizzazione dell’esistenza astrae dalla singola individualità, per cui la spersonalizzazione genera la schiavitù. Se la specializzazione fa nascere da una parte il dominio tecnico, dall’altra macina quella che noi oggi, figli dell’evento cristiano, comprendiamo essere una ingiustizia: l’asservimento di alcuni al potere di altri. È però anche storia dei giorni nostri, che in alcuni casi hanno dimenticato Cristo. Ma gli antichi desideravano, e forse a noi questo manca. E costruivano le città e i templi come montagne (Urkesh nacque come montagna). Perché? Sono le montagne del nord, quelle su cui camminava il dio Kumarbi di Urkesh, così come lo descrivono i miti. L’uomo antico lottava con la natura e desiderava delle altezze, finché nel tempo, possiamo dire noi, il mistero si è manifestato. Ma questa è un’altra storia, che però prosegue, mirabilmente, quell’antica vicenda di cui ci parla la bellissima mostra.