Lo scorso 28 ottobre, la Commissione cultura, scienza e istruzione della Camera ha concluso l’esame del decreto scuola “L’istruzione riparte”, che ora, emendato, è al vaglio del Senato per la conversione in legge.
Molte le novità che riguardano il personale scolastico. Tra queste, la formazione e l’aggiornamento obbligatori di cui si occupa l’art. 16 emendato, al quale intendiamo dedicare alcune considerazioni. In una prima bozza era prevista la formazione obbligatoria per i docenti i cui alunni non avessero raggiunto risultati sufficienti nelle prove Invalsi. Dopo le ultime revisioni, che hanno notevolmente allargato il raggio degli interventi sul personale, la formazione sarà obbligatoria per tutti.
In quale modo e con quali risorse? Essa dovrebbe concentrarsi su alcuni aspetti fondamentali dell’insegnamento, come: a) rafforzamento delle conoscenze e delle competenze di ciascun alunno attraverso una didattica rinnovata che tenda anche a “migliorare gli esiti nelle valutazioni nazionali Invalsi”; b) potenziamento delle competenze per favorire l’integrazione di alunni con disabilità e bisogni educativi speciali (Bes); c) rafforzamento di tutto ciò che si muove sotto l’ombrello dell’integrazione e della didattica interculturale; d) aumento delle competenze concernenti l’educazione all’affettività e alle pari opportunità di genere; e) gestione e programmazione dei sistemi scolastici; f) processi di digitalizzazione e di innovazione tecnologica; g) competenze per favorire i percorsi di alternanza scuola-lavoro.
Come si può constatare, entrano prepotentemente in questo quadro temi attinenti la cura dell’identità dell’altro, cioè dell’alunno, che viene preso in carico dalla scuola non solo per aiutarlo a fare un certo percorso di introduzione, ragionevole, entro la vastità della realtà da scoprire attraverso i contenuti dell’insegnamento/apprendimento. No, la preoccupazione di chi ha vergato una parte degli emendamenti è, in un certo senso, di volere invertire il processo: prima rendere favorevoli le condizioni dell’apprendimento, e poi procedere ad insegnare ciò che rientra in una sorta di “casellario dell’emergenza”. Caso tipico quello dei bisogni educativi speciali (Bes), per i quali è stato aggiunto l’articolo 1 bis, in cui si rimarca che i docenti assegnati ad una classe nella quale è presente almeno un alunno con le caratteristiche di cui sopra “sono tenuti in via sperimentale per l’anno scolastico 2014-2015 a partecipare ad almeno un corso di formazione sugli aspetti della didattica dell’inclusione scolastica per classi con esigenze differenziate e della facilitazione per l’apprendimento della seconda lingua”.
Per quanto concerne le risorse, ci sarebbero a disposizione complessivamente 10 milioni, di cui 5 sui Bes a partire dall’esercizio finanziario 2013. Come è noto, il reperimento dei fondi, previsto con una crescita delle accise su birra e superalcolici, ha determinato le dimissioni del presidente della Commissione Giancarlo Galan (Pdl).
Il quale, tuttavia, è autore di un ultimo emendamento, in qualche modo utile per riaprire una prospettiva altrimenti chiusa, che introduce come enti formatori, a pieno diritto, accanto alla università statali e non statali, le “associazioni professionali accreditate dal Miur, da individuare nel rispetto dei principi di concorrenza e trasparenza”.
Insistiamo nel dire che la materia di questo articolo è scottante. In primis, perché attraverso la formazione e l’aggiornamento si entra nel cuore della didattica, che consiste nella proposta formativa che l’insegnante fa ai propri alunni mediante i contenuti dell’insegnamento. Se non c’è insegnamento, non c’è neppure apprendimento. In secondo luogo, dalla formazione passa il nodo della professionalità docente. Un docente che ha l’obbligo di formarsi dovrebbe essere anche un docente la cui progressione di carriera non è legata alla sola anzianità di servizio ma anche alla cura dei compiti professionali. Altrimenti l’obbligatorietà è il veicolo del peggiore statalismo, cioè di informazioni standardizzate che vengono calate sulla testa degli insegnanti.
Si vuole arrivare a questo? Si parla tanto nei convegni dell’insegnante come di un “professionista riflessivo”, ma poi, nei fatti, si continua a considerarlo un “impiegato”, neppure in grado di scegliere dove, come e quando curare il proprio percorso di maturazione professionale. Ecco perché intravvediamo nel possibile collegamento, nella forma di un riconoscimento tramite convenzione, tra Miur e associazioni professionali accreditate uno spazio di libertà che può evitare l’imposizione di una formazione vincolante e uguale per tutti.
Le associazioni professionali dei docenti, infatti, sono espressione di una varietà culturale, di una libertà interpretativa di approccio alla professione e ai contenuti dell’insegnamento, di cui l’insegnante ha più che mai bisogno. Tanto più se si arrivasse (è tutto da vedere e soprattutto a quali condizioni) a includere la formazione tra gli obblighi di servizio.