Tra un breefing dell’ultimo progetto di ricerca cosmologica della Nasa, una serie di seminari di astrofisica per i monaci buddisti in India e i suoi corsi al Dipartimento di astronomia dell’Università dell’Arizona a Tucson, Christopher Impey trova il tempo di passare da Rimini dove parla a un attento e curioso pubblico del Meeting e poi si confronta sulle “big questions” con il gruppo interdisciplinare di eminenti scienziati convocati da Euresis a San Marino per l’ormai consueto Symposium.
Lo abbiamo incontrato per raccogliere il suo punto di vista su alcuni dei temi caldi della cosmologia attuale; ma è stato inevitabile scivolare sui problemi dell’educazione e della divulgazione scientifica ai quali sta dedicando molte energie. Impey anima alcune iniziative di sperimentazione in scuole e università statunitensi, convinto che “tutti siamo potenzialmente scienziati ma spesso la nostra curiosità non viene nutrita bene”. Si sta quindi impegnando per favorire il diffondersi di una migliore “alimentazione” scientifica dei giovani; e non dimentica di inserire il dessert in questa particolare dieta: è infatti autore di un romanzo dal titolo intrigante: Shadow World.
Professor Impey, qual è il settore dell’astrofisica che più l’appassiona?
Il mio argomento di ricerca è l’astrofisica extragalattica, l’universo distante. Di solito, se si parla di meno di un miliardo di anni luce di distanza io sono meno interessato. Mi piacciono anche altri aspetti dell’astrofisica, ma in particolaremi attraggono gli oggetti lontani.
Ma cosa c’è fuori dalla Via Lattea? Si potrebbe pensare che tra la nostra galassia e una molto distante non ci sia nulla, ma so che lei ha studiato anche il mezzo intergalattico. Che cos’è? E che interesse può esserci nello studiarlo?
Per quanto riguarda il mezzo intergalattico, crediamo che sia praticamente vuoto. Voglio dire che la densità dello spazio profondo tra le galassie può essere di un atomo per metro cubo: un vuoto quasi perfetto. Allora perché ci interessa? In realtà in quello spazio sì trova tantissimo materiale. Se infatti proviamo a fare un censimento della materia dell’universo, sappiamo che gran parte dell’universo è materia oscura; ma se parliamo di materia normale scopriamo che solo una piccola frazione di essa si trova nelle galassie. Si scopre che il 60/80% di tutta la materia normale dell’universo sta nello spazio tra le galassie. Non lo vediamo, perché è poco luminoso. Può anche essere molto caldo, ma la densità è così bassa che non riusciamo a vederlo.
Quali sono gli strumenti più utili per vedere questo mezzo intergalattico e gli altri oggetti che si trovano così lontano?
Ho usato molto l’Hubble Space Telescope, forse 12 o 13 volte in totale. È ancora un telescopio magnifico per questo tipo di lavoro. C’è un metodo particolare che usiamo per osservare il mezzo integalattico, perché non puoi vedere il materiale che lo compone: usiamo un Quasar (una galassia compatta molto lontana o un buco nero molto brillanti) per illuminarlo da dietro. Il materiale è illuminato dal Quasar, e a quel punto possiamo guardare lo spettro osservando l’assorbimento. Usiamo quindi oggetti lontani come sonde per rivelare il materiale: funziona piuttosto bene, e l’Hubble Space Telescope è molto valido per questo tipo di studio. Tuttavia utilizziamo anche grandi telescopi da Terra, come quelli che abbiamo in Arizona.
Che tipo di strumento potrebbe aiutare a fare un grande passo avanti nella comprensione di questi aspetti dell’astrofisica?
Per quanto riguarda gli strumenti nello spazio, il vantaggio verrà dal James Webb Space Telescope (JWST). Hubble è buono, ma è piuttosto vecchio ormai; ha 27 anni. Inoltre il suo specchio non è molto grande, e se si fa una classifica dei telescopi più grandi mai costruiti non è nemmeno tra i primi 100. James Webb avrà uno specchio di 6.5 metri: per lo spazio, è un telescopio molto grande. A Terra abbiamo telescopi di anche 10 metri, e ne stiamo costruendo di 20 metri. Tenga presente che dalle galassie lontane riceviamo anche solo un fotone al secondo. Dobbiamo essere in grado di raccogliere quanta più luce possibile: per questo si stanno costruendo telescopi più grandi. E noi li stiamo aspettando.
C’è ancora così tanto da scoprire? Spesso si pensa che quasi tutto ormai sia noto; che sia tutto spiegato nei libri. E’ proprio così?
Nell’astrofisica moderna misuriamo alcune cose molto bene: conosciamo il tasso di espansione dell’universo, la sua età… ad un livello molto alto di precisione. Ma alcune cose, come la materia oscura e l’energia oscura, non le conosciamo ancora per niente. Siamo ancora ignoranti su gran parte dell’universo.
Sempre parlando di come la scienza è percepita: durante il Rinascimento la cosmologia era una cosa molto importante; tutti la conoscevano ed era strettamente connessa alla vita. Tanto è vero che quando il modello cosmologico è cambiato, è cambiata anche la mentalità delle persone. Ora non si sa quasi niente di cosmologia: crede che ciò abbia qualche impatto culturale?
È un peccato, perché la scienza è vista dalle persone come una cosa separata dalla vita; non vi si presta più attenzione. Abbiamo la responsabilità di educare.
Da un punto di vista storico, credo che quando la conoscenza scientifica era minore, diciamo al tempo di Galileo, era possibile per una persona educata sapere quasi tutto. In classe faccio sempre una analogia: se si prende un grosso giornale della domenica e si immagina di rimuovere tutta la pubblicità lasciando solo gli articoli, questo è ciò che era la scienza. Tutto, dalla biologia alla chimica alla fisica, poteva essere raccolto nelle dimensioni di un giornale. Ora bisognerebbe riempire di libri un teatro fino al soffitto. Oggigiorno nessuno può tenere il passo, nemmeno una persona educata. Io non riesco star dietro ai progressi della biologia, e a tenere il passo di ciò che accade nella genetica. Ci provo, ma è difficile. Questa è una parte del problema: la quantità di conoscenza è troppo grande, anche perché uno scienziato riesca a tenersi informato su un campo di ricerca vicino al suo. Gli scienziati tendono a specializzarsi, e perciò devono conoscere ogni cosa sul proprio argomento: di conseguenza non conoscono i pianeti se studiano le stelle, e se studiano pianeti non conoscono le galassie. Per il pubblico è anche peggio, perché magari non hanno nemmeno ricevuto una buona educazione scientifica, e quindi quando leggono un articolo su un buco nero supermassivo o sul big bang questo non trova radici a cui attaccarsi. È una sfida in più.
L’altro aspetto che è cambiato da che 500 anni fa è la visione del mondo: i modi di pensare alla vita, alla religione, al mondo e all’universo erano collegati, erano una cosa sola. Erano un solo tipo di pensiero. Ora la gente ha la propria vita, le proprie fonti di informazione, i propri computer, e l’universo non c’entra nulla. Non vedono alcuna connessione con l’universo; non riflettono sul loro posto nello spazio e nel tempo. E io credo che questo fosse più facile quando c’era un dialogo tra filosofia, religione e astronomia. Erano tutte in dialogo allora; ora lo sono molto meno.
Quando studio un particolare aspetto dell’astrofisica, mi accorgo che senza conoscerne il contesto non è nemmeno interessante studiarlo. Allo stesso tempo è impossibile studiare la cosmologia in modo completo senza conoscere come funzionano i piccoli pezzi che compongono l’universo. Come vive lei il legame tra il particolare e il tutto?
A volte in realtà è molto semplice. Quando parlo agli studenti di stelle, dell’età della Terra o di cose basilari come queste, a volte ne trovo alcuni che semplicemente non sono interessati all’astronomia.
Ma poi quegli stessi studenti possono essere interessati a sapere da dove vengono, e da dove vengono gli atomi. Così, quando imparano che ciascuno dei loro atomi – come il carbonio che li rende forme di vita – più di 4 miliardi e mezzo di anni fa era parte di una certa generazione di stelle e che poi in qualche modo si è unito ad altri atomi per formare una persona, prima di disperdersi nuovamente e avere una nuova storia, questo può apparire loro come una fantasia troppo incredibile per essere vera, ma è vera. È un collegamento molto diretto tra me e l’astronomia. Io sono una persona fatta di qualche materiale, ma da dove arriva? E come ha fatto a un certo punto a diventare me? Uno potrebbe dire che la storia che spiega come siamo diventate persone, come siamo nate e come abbiamo preso vita è tutta un’altra storia, ma la parte di storia che racconta da dove arrivano il nostro carbonio, il nostro azoto e il nostro ossigeno per formare la nostra parte biologica è una storia di astronomia. E questa storia può essere raccontata. Qualunque persona viva dovrebbe domandarsi da dove arriva e dovrebbe sapere qual è fisicamente la sua origine. Quella materia non è che si trovi da sempre nell’universo. Questo è solo un esempio. E anche gli studenti che non sono particolarmente interessati, all’improvviso si interessano.
È un bisogno dell’uomo quello di scoprire e ricercare.
Sì, possiamo chiederci se la ricerca abbia qualche risvolto pratico, e qualche volta ce l’ha. Ma io credo che in fondo sia parte essenziale di ciò che siamo.
(Paolo Cazzoletti)