Insegno in una Università del Sud del Paese, in Calabria, dove oltre 40.000 studenti iscritti nelle varie Facoltà e nei numerosissimi Corsi di Laurea, diventeranno ingegneri, geologi, biologi, matematici, filosofi, economisti, ecc. ma nessuno di loro si occuperà più della terra di questa Regione, così spesso esposta ad alluvioni e a terremoti. Su una popolazione totale di due milioni di abitanti, gli addetti in agricoltura in Calabria sono circa il 4% , di cui però il 7,5% è costituito da immigrati.
Questo minuscolo esempio della terra calabra è emblematico di una situazione diffusa su tutto il territorio nazionale con conseguenze irrazionali che denotano un uso distorto delle nostre risorse culturali e ambientali. L’abbandono della terra a favore dell’attrazione universitaria è un evento epocale tipico della nostra storia recente, dettata da una insensata o puramente virtuale immaginazione del futuro, come se fosse possibile raggiungerlo volando, cioè staccandosi dalla realtà nella quale, invece, siamo cresciuti e dalla quale siamo connotati.
Le nuove generazioni crescono all’interno di un modello culturale che propone l’Università come un percorso quasi obbligato per raggiungere una soddisfacente qualità della vita, dove si impara a confrontarsi, almeno a livello teorico, con i problemi reali dell’ambiente, della natura, dell’economia.
Questo processo di conoscenza della realtà si concretizza, ovviamente, non per tutti gli studenti nello stesso modo ma, nella maggior parte dei casi, rimane fine a se stesso, senza trovare sbocchi adeguati per sperimentare l’applicazione di ciò che si è appreso teoricamente nelle aule universitarie. Così si assiste ad una sequenza di errori metodologici, i cui risultati sono drammaticamente evidenti a tutti. L’abbandono delle terre secondo le esperienze tradizionali non è sostituito da una adeguata e consapevole gestione del rapporto uomo-ambiente secondo le più avanzate conoscenze scientifiche.
Le direttive stabilite in sede UE, come del resto la legislazione nazionale a favore dell’ambiente, tendono ad assumere sempre più il ruolo di un invalicabile muro burocratico, con cui sono costretti a confrontarsi ingegneri, geologi, urbanisti, naturalisti, economisti, con risultati che, stando a quanto siamo in grado di constatare dalle immagini televisive delle aree colpite dalle recenti alluvioni in Liguria ed in Toscana, sono davvero disastrosi.
Si pensi, ad esempio, alle centinaia e centinaia di pagine che sono state scritte per lanciare la Direttiva UE del 2000/60 CE, per la valutazione dell’indice di qualità morfologica dei fiumi (IQM), un sistema ultra sofisticato per ripristinare entro il 2015 gli aspetti eco-sistemici dei corsi d’acqua e, intanto, si assiste a fenomeni di tsunami urbano, che non avremmo mai potuto immaginare all’interno di un Paese così fortemente evoluto e acculturato come il nostro.
A questo si aggiunge l’azione della Magistratura che, regolarmente, dopo ogni disastro ambientale, si muove alla ricerca dei colpevoli possibili ed eventuali, con interventi tardivi e talora stucchevoli, mentre si piangono i morti e si assiste, impotenti, alla devastazione del paesaggio.
Abbandono della terra e della natura, grande difficoltà a sviluppare dopo il corso di studi una progettazione adeguata a protezione dell’uomo e dell’ambiente, interventi di burocrazia consolidata da parte del mondo politico, caccia al colpevole da parte della Magistratura: chi ha pensato e messo in atto un modello di sviluppo così “sgarrupato”? Come è possibile rimediare ad uno stato di cose così stupidamente complesso? Che cosa è venuto a mancare nel tempo nella gestione della politica, della cultura, dell’economia, della giustizia?
Le risposte non sono e non possono essere semplici, ma alcuni elementi balzano subito agli occhi, anche di coloro che non hanno frequentato studi di alto livello, ma che hanno mantenuto saldo il buon senso comune e l’onestà intellettuale.
Il primo aspetto riguarda lo stato di confusione apparente, più o meno voluto, nel tentativo di far coincidere il concetto di qualità della vita solo e unicamente con la disponibilità di risorse finanziarie: guadagni facili e di breve durata. L’elemento che si è radicalizzato, forse in maniera irreversibile, è il possesso del denaro attraverso la corruzione e, sempre più frequentemente, la convergenza verso la criminalità più strutturata, che riveste sempre meglio i panni dell’imprenditore accorto: esiste una diffusione capillare di tale metodo, che si sviluppa, spesso in maniera quasi inconsapevole per non dire impropria, nelle azioni quotidiane del singolo individuo, del mondo politico, di quello imprenditoriale, della Magistratura e persino del mondo ecclesiale, coperti spudoratamente dalla espressione “mediazione”, cioè l’accordarsi per “facilitare” la realizzazione di interventi o l’applicazione di leggi che abbiano come obiettivo di fondo l’utile della persona e non il bene comune.
Il secondo aspetto riguarda l’uso appropriato della tecnologia e della scienza: dopo decenni di consulenze affidate più in nome di una appartenenza partitica, anziché di una competenza confermata da studi e da esperienze reali, si assiste ad una devastazione del territorio che rimette in moto il ricordo di eventi analoghi come l’alluvione a Firenze del 1966 o, ancora prima, l’alluvione del Polesine del 1951. Che cosa ha prodotto il mondo scientifico negli ultimi sessanta anni, o meglio, che cosa gli è stato consentito di produrre dal mondo politico attraverso l’attribuzione di fondi, per contrastare eventi calamitosi quali abbiamo subito in quest’ultimo mese?
Il terzo aspetto riguarda l’economia: oggi ci siamo scoperti improvvisamente poveri, perché l’UE ci ha chiarito che abbiamo usato da tempo anche le risorse che non erano disponibili, abbiamo i danni delle esondazioni dei fiumi da sostenere e i debiti da assolvere per riequilibrare le nostre finanze, mentre non siamo in grado di dare lavoro ai nostri giovani, proprio a coloro che avevamo stimolato a frequentare l’Università e che ora, gratuitamente e con entusiasmo, sono a Genova a spalare fango … Mi viene in mente l’antica preghiera cristiana “rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Sarà sufficiente per risolvere i nostri problemi?