Nella ricerca di Dio del mondo pagano ci si è scontrati con una dicotomia che sembrava insanabile: il desiderio di un dio incontrabile, conoscibile, capace di coinvolgersi con l’uomo; e il desiderio di un dio perfetto, privo dei limiti e dei difetti umani. Dal primo desiderio è nato l’antropomorfismo, la concezione cioè di dèi simili agli uomini ma eternamente giovani e potenti, limitati però dagli stessi vizi dei mortali, e quindi ingiusti, lussuriosi, vendicativi, capaci di doni ma anche indifferenti o violenti; o è nato un immanentismo secondo cui dio è diffuso nell’universo, ma il suo rapporto con l’uomo resta, dagli antichi stoici a Seneca, confuso e contradditorio. Dal secondo deriva invece l’idea necessaria di una distanza tale che al dio garantisca imperturbabilità, equilibrio e serenità, senza l’impegno dell’intervento punitivo o salvifico nel mondo; ma all’uomo non resta altro che una nozione del divino, o al più un’impossibile ansia di imitarlo.
Un tentativo di risolvere la dicotomia, o almeno di trovarvi un correttivo, percorre tutto il modo antico: si tratta dell’individuazione di divinità minori, o di esseri intermedi, coinvolti col mondo umano ma con qualche legame col superiore mondo divino, che può quindi considerarsi più distante, più distaccato. Il termine che li definisce è daimones, démoni. Ne parla già Esiodo, percorrendo le diverse età della storia umana; gli uomini dell’età dell’oro, che vivono senza affanni e muoiono come colti dal sonno, divengono démoni: “poi, dopo che la terra coprì questa stirpe / essi sono démoni per volere del grande Zeus, / benevoli, sulla terra, custodi degli uomini mortali, / che della giustizia hanno cura e delle azioni malvagie, / vestiti di nebbia, sparsi ovunque sulla terra, / datori di beni“. Anche la stirpe argentea ha una sorte simile: “e poi, quando anche questa stirpe la terra ebbe coperto, / costoro beati sotterranei sono detti presso i mortali, / démoni inferiori, ma tuttavia provvisti di onore“.
La concezione dell’esistenza di questi esseri mediani e mediatori doveva appartenere alla fede popolare, desiderosa di dèi compagni: in una tragedia di Euripide, l’Ifigenia in Tauride, si svolge una discussione fra alcuni pastori che hanno intravisto degli sconosciuti in una grotta, luogo abituale di ninfe e divinità minori. Uno di loro chiama i compagni: “Non vedete? Dei démoni sono seduti lì“. E un altro leva le braccia in preghiera, mentre un terzo lo deride. In realtà ha ragione, si tratta di uomini, non di dèi: ma è ugualmente definito “sciocco, tracotante nella sua empietà“, perché “ha riso delle preghiere“.
Simile è la concezione popolare che troviamo in Plauto, o forse nella sua fonte greca, Difilo: nel prologo della commedia Rudens parla la stella Arturo: “Di notte sono luminoso in cielo e fra gli dèi, / di giorno cammino fra i mortali. / Anche altre stelle scendono dal cielo sulla terra: / Giove, il signore degli dèi e degli uomini, / ci distribuisce fra la gente / ad apprendere azioni e costumi degli uomini, / la religiosità e la lealtà. / Ogni giorno sa chi cerca il male sulla terra / e i buoni li tiene scritti in altri registri“.
E’ soprattutto il pensiero platonico a raccogliere la demonologia mitica e popolare. Socrate sa di avere un daimon personale, che lo custodisce e lo distoglie da azioni e parole errate o pericolose: “quella mia voce profetica, quella del démone, per tutto il tempo passato io la sentivo continuamente e ad ogni occasione; e sempre mi si opponeva, anche in circostanze di poco conto, se solo ero sul punto di fare qualche cosa che non andasse bene“. Tanto è importante la compagnia del démone, che il suo silenzio nel processo e nella condanna diviene segno che ciò che è avvenuto è un bene per lui: “non è possibile che il consueto avvertimento non si opponesse se ciò che stava per avvenire non fosse stato un bene“.
A conclusione del mito di Er che chiude la Repubblica, nella pianura degli inferi in cui si radunano le anime dopo che hanno scelto la loro vita futura, ciascuna di esse viene affidata ad un démone: “ad ognuna ella (la Moira) dava il demone prescelto come compagno, perché le fosse guardiano durante la vita e si adempisse il destino da lei scelto“. Ma è soprattutto nel Simposio che la concezione dei démoni è espressa con più chiarezza. Amore non è un dio, ma un démone: “sta di mezzo fra il dio e il mortale“. Compito di ogni démone è “di interpretare e trasmettere agli dèi qualunque cosa degli uomini e agli uomini qualunque cosa degli dèi: le preghiere e i sacrifici, e i voleri e i premi“. In quanto essere intermedio, Amore partecipa del bisogno degli uomini e della capacità degli dèi: solo così è in grado di elevare l’anima bisognosa di bellezza fino al Bello in sé.
Sarà un seguace del platonismo della prima età imperiale, Plutarco, a spiegarsi la decadenza degli oracoli pagani, in particolare quello di Delfi di cui era custode, come dovuta alla morte dei daimones, interpreti degli dèi nei santuari e presenti sulla terra come divinità minori, tanto da partecipare della mortalità degli uomini. In un episodio dallo straordinario fascino racconta che durante un viaggio in mare il pilota era stato chiamato da una misteriosa voce: “Annuncia che Pan, il grande, è morto“. Il pilota attende che vi sia calma di mare e di vento e poi lancia il suo annuncio, che provoca un lamento in tutta la natura intorno.
L’episodio, ambientato durante l’impero di Tiberio, l’epoca della morte di Cristo, ha suscitato in ogni tempo una varietà di interpretazioni: il lamento per la fine del paganesimo, la sconfitta dei démoni da parte di Cristo, la morte di Cristo Buon Pastore come Pan è il dio/démone dei pastori, fino allo sdegnato rifiuto di D’Annunzio. Ma qui interessa il permanere del desiderio, anche doloroso e nostalgico, di un dio compagno e presente, proprio nel tempo in cui Dio si è fatto compagno e presente.