Delle 136 pagine, formato pdf, intitolate La buona scuola. Facciamo crescere il Paese, il nuovo documento del Governo Renzi lanciato ieri in rete, ben 58 sono dedicate alla questione del personale. Decenni di incuria politica, sindacale e amministrativa hanno generato una condizione tra le più frustranti al mondo. Seguono i capitoli sull’autonomia e valutazione delle scuole, su “ciò che si impara a scuola”, sul rapporto scuola lavoro. Nel documento i punti-chiave sono ordinati in 12 item.
Non è compito di queste brevi riflessioni entrare nel merito di ciascun punto, ma semmai di segnalare quelli che paiono essere i punti di approfondimento necessario e ulteriore nonché gli ostacoli che l’operazione politico-culturale “La buona scuola” potrebbe incontrare nel suo svolgimento.
Spira nel documento un vento leggero del “laissez faire, laissez passer”, non in tutti i punti allo stesso modo. Trasformare ogni istituto scolastico e l’intero sistema da “retrovia” ad “avanguardia” dello sviluppo civile ed economico del Paese è un’impresa molto simile a quella di far correre un elefante come una gazzella. Accadrà, forse, ma occorrerà che l’elefante si metta parecchio a dieta. Sul provvedimento, che si annuncia come centrale, dell’assunzione di 150mila nuovi docenti, tratti al 90% dalle Gae (graduatorie ad esaurimento), e di un concorso per 40mila nuovi abilitati, tra il 2016 e il 2019, nella prospettiva di abolire una volta per tutte le supplenze e perciò tagliare alle radici per sempre il fenomeno del precariato – l’equivalente di un’ultimissima maxi-sanatoria – al costo di 3 miliardi, c’è solo da osservare molto semplicemente che dipenderà dai fondi statali a disposizione.
Certo la Commissione europea, avendo sentenziato che se uno ha accumulato 36 mesi di lavoro, deve essere assunto regolarmente, spinge, con la minaccia di forti sanzioni pecuniarie a carico dell’Italia, in quella direzione. L’ipotesi che i nuovi assunti firmino un contratto nel quale il principio di anzianità venga soppiantato da quello di competenza, certamente porterà ad uno scontro o, comunque, a trattative estenuanti con il sindacato, ben deciso, in questa come in altre materie, a esercitare i propri poteri di veto. Anche perché potrebbe accadere che molti insegnanti, attivi con i vecchi contratti, decidano di voler passare al nuovo, qualora lo trovassero più conveniente.
C’è un’altra strada, più forte istituzionalmente, quella di fare una legge sul nuovo stato giuridico, riprendendo vecchie proposte circa la differenziazione di carriere e stipendi sulla base dei tre step: insegnante iniziale, ordinario, esperto. Ma per questo occorre passare in Parlamento, la composizione del quale dipende dal sistema elettorale del Porcellum. Sul suo lato sinistro, la maggioranza bersaniana è accentuatamente conservatrice, legata alla Cgil. In questi decenni, d’altronde, il Parlamento è divenuto sempre di più una Camera delle corporazioni, in cui sono annidate le resistenze più forti all’innovazione. In ogni caso, il passaggio dall’organico di diritto/di fatto a quello funzionale, quale grimaldello per far saltare il precariato e le supplenze, può reggere solo se le scuole esercitino un’autonomia radicale nel campo dell’organizzazione dell’offerta formativa, della personalizzazione della didattica, della personalizzazione dei percorsi e dell’assunzione del personale.
In contraddizione, almeno parziale, con l’autonomia totale, alla quale nel capitolo terzo è reso il dovuto omaggio, resta il discorso del reclutamento degli insegnanti e dei dirigenti. Il concorso nazionale continua a restare lo strumento-chiave. La soluzione più radicale e al contempo più semplice e più efficace resterebbe, viceversa, quella dell’assunzione diretta da parte di scuole e reti di scuole tanto dei dirigenti quanto dei docenti. Tra la retorica dell’autonomia e la sua realizzazione la contraddizione è visibile. Anche perché, se è vero che il DPR 275 del 1999 offre grandi spazi, tuttavia occorrerà procedere sia per via legislativa sia per via amministrativa a modificare le condizioni che hanno reso possibile il sabotaggio efficace dell’autonomia. Il concorso centrale nazionale o decentrato resta l’ultimo baluardo amministrativo-sindacale di resistenza nonché di “selezione avversa” e spesso di corruzione e di simonia… laico-burocratica.
Un provvedimento “Sblocca Scuola”, che cancelli molte norme-capestro e leggi e leggine raccolte nel Testo unico del 1994 dovrà andare più radicalmente alle conseguenze che il nome promette. Il discorso sull’autonomia è fondativo non solo dal punto di vista strategico, interno al sistema, ma, in primo luogo, come condizione per suscitare dinamiche di innovazione all’interno della scuola, per raccogliere forze per il cambiamento. In ogni scuola esistono quelli che il documento chiama “gli innovatori naturali”, “gli innovatori silenziosi”. Ma se costoro sono soffocati, sabotati e talora emarginati, la ragione di fondo è che il sistema istituzionale ed amministrativo degli istituti e dell’universo dell’istruzione nazionale ha la legittimità e la forza per farlo. C’è un solo modo di uscirne: lasciare fare alle scuole la loro corsa, la loro sperimentazione, la loro avventura. Certo, con i rischi di anarchia e, magari e ancora una volta, di pratiche clientelari e corruttive. Ma con una garanzia esterna, rappresentata da un Sistema nazionale di valutazione, severo e rigoroso, che vada a controllare ex-post i risultati. L’appello a tutti gli innovatori d’Italia sarà tanto più credibile quanto più il governo incomincerà da se stesso.