Educare come l’arte di fare – e far fare – esperienza del senso delle cose, dei fatti, degli avvenimenti, delle persone fino al senso della vita di cose e persone. Ci siamo chiesti anche noi se oggi un certo riduzionismo sul piano antropologico, più di quattro secoli di razionalismo sul piano cognitivo, l’indifferentismo diffuso sul piano emotivo e il relativismo fino al cinismo sul piano culturale, non lo abbiano reso de facto quasi impossibile, e se quindi, prima di educazione, non si debba innanzi tutto parlare di educabilità, ovvero delle condizioni necessarie, perché poi la creatività educativa del singolo insegnante, come anche quella del genitore, possa fiorire nei suoi infiniti colori.
L’inizio di questa riflessione è di recente pubblicazione, Emozioni per crescere. Come educare l’emotività (Armando, Roma, 2008, oggi inserita nella Social Science Reseach Network, la rete elettronica statunitense, che raccoglie le ricerche internazionali nelle scienze sociali), e getta i pilastri dell’educabilità nella persona propria e dell’altro, senza mai venir meno al rigore della preparazione disciplinare, ma utilizzando la preparazione disciplinare in chiave strumentale, per garantire all’altro una idealmente pari competenza disciplinare (apprendimento) insieme alla capacità di conoscenza, entro un quadro complessivo di sviluppo e di crescita.
«Il signor Germain appagava una sete ancor più essenziale per il ragazzo che per l’adulto, la sete della scoperta – scriveva Camus ne Il Primo uomo -. Nella classe del signor Germain, per la prima volta in vita loro, sentivano di esistere e di essere oggetto della più alta considerazione: li si giudicava degni di scoprire il mondo». La sete della scoperta costituisce quel sistema di ricerca (tropismo in un’accezione psicologica o attrazione-repulsione in un’accezione linguistica), che è l’inizio di tutta la dinamica emotiva, che ha il vertice della sua origine nel cuore dell’uomo, senza il quale nulla di lui si comprende.
Ad esempio il desiderio (emotivo) produce quell’inquietudine (emotiva) di Agostino, che è il contrario della tranquillità; la curiosità, insieme alla voglia e all’entusiasmo (tutte emotive) di conoscersi nei propri limiti e capacità – diceva l’alpinista Walter Bonatti – è ciò che ha reso possibile l’aspirazione (ancora emotiva) a una vita piena di senso; il processo di conoscenza, di una scoperta scientifica – diceva Einstein – è un continuo conflitto di meraviglie (emotive); la malinconia, il dolore, la sofferenza e a volte l’angoscia e la disperazione (tutte emotive) propongono il volto dell’altro nella sua domanda di senso; e senza partecipare al dolore dell’altro (empatia, anch’essa emotiva) – diceva Edith Stein – come si potrebbe dare un senso alla realtà?; o ancora, quel sentire ancor più profondo che è la colpa (emotiva), non è che la richiesta di responsabilità e risposta alle sfide, che ogni giorno la vita propone; e non è forse la speranza (emotiva) che rende possibile l’“essere un colloquio” (l’essere relazione, e quindi emotività) – diceva Hölderlin – con la vita proposta ogni giorno? Potremmo continuare. Emozioni per crescere mostra come la lingua italiana ci metta a disposizione 2.497 parole e 382 categorie di base per pensare, esprimere, dire la nostra relazione con noi stessi, con l’altro, con gli altri, col mondo che ci circonda, in una progressiva possibilità di introduzione viva ad esso. Educare è un introdurre nella realtà in maniera viva.
Ed è questa vivezza, che rende l’educazione esperienza. «L’esperienza non è sperimentale. Non la si provoca: la si subisce. Meglio la pazienza che l’esperienza. Pazientiamo… o meglio soffriamo», scriveva Camus nei Taccuini, accentuando il solo elemento emotivo. Effettivamente lo stesso lessico italiano fa emergere un’ergatività grammaticale solo logica (che non diventa né morfologica, né sintattica), come una sorta di resilienza pre-razionalista, che differenzia il mondo non in soggetti e oggetti, ma in agenti e pazienti o esperienti. Più compiutamente Vygotskij, che con James affermava la psicologia essere una scienza, mentre l’insegnamento un’arte, scriveva «Scindere il lato cognitivo della nostra coscienza da quello affettivo costituisce una delle principali carenze della psicologia tradizionale. Così facendo, il pensiero si converte inevitabilmente in un flusso autonomo di pensieri, che pensano se stessi, e resta avulso da tutta la pienezza della vita. Dietro il pensiero c’è tutto l’insieme delle inclinazioni affettive e volitive».
Il cuore è innanzi tutto il vertice di un’intelligenza (logos, il comprendere la realtà come un tutto, come un senso, del theorein, del domandare, del chiedere ragione, del mettere in questione – come sosteneva Franco Volpi in pagine già ricordate su questo giornale), che non si domanda solo il Che cosa, ma anche il Perché e il Per che cosa? Ed è precisamente da un’intelligenza contemporaneamente razionale-emotiva, che deriva una ragione cognitivo-emotiva, che consente al comprendere di non venire ridotto al capire, e al conoscere di non essere confuso con una razionalità logico-formale esclusivamente deduttiva, che ormai non risponde neppure più in termini di efficacia didattica, come dimostra l’insegnamento delle lingue antiche (cfr. Latine (et graece) colloqui: l’insegnamento delle lingue classiche secondo il “metodo natura”, qui pubblicato).
Abbiamo quindi mostrato la reciproca interconnessione e inscindibilità tra dinamica cognitiva e dinamica emotiva, tra costruzione del significato e costruzione del valore delle cose. Quest’ultima, secondo un modello epistemologicamente nuovo, parte dal bisogno, da ogni bisogno (l’uomo è bisogno, è dipendenza dalla realtà), per arrivare alla motivo-azione intrinseca, che prepara l’agire, passando attraverso tutte le declinazioni emotive positive (desiderio, curiosità, voglia, entusiasmo, passione, aspirazione, empatia, simpatia, speranza, ecc.) e negative (indifferenza, demotivazione, malinconia, dolore, sofferenza, angoscia, senso di colpa, disperazione, ecc.), che in chiave educativa (non psico-terapeutica) sono mostrate essere l’espressione operativa di un bisogno sottostante.
Senza emotività il nostro bisogno non potrebbe cercare una risposta nella realtà. L’emotività è quel che di noi mette in relazione bisogno e intelligenza col reale; è il nesso vivo, vitale, con quella che poi sarà capacità razionale di astrazione dall’esperienza nelle sue articolate sfaccettature: categoriale, concettuale, elaborativa, argomentativa, legislativa. Il senso, a cui introduciamo, deve sempre essere una profonda correlazione tra il significato delle cose (la natura della realtà) e il loro valore (il perché della realtà). La coscienza del reale non è coscienza solo di un significato, ma anche del nesso vitale, che tale significato ha con noi, col nostro bisogno, con la nostra storia, con la nostra esistenza.
Acquisire questa capacità di senso è un processo naturalmente graduale e progressivo. Il bambino appena nato è già in grado di rispondere alle domande “Mi interessa?” e “Mi piace?” e a quattro anni può possedere un vocabolario emotivo di dieci parole, mentre il bambino, poi fanciullo e poi adolescente (in fase precritica e poi critica), diventerà via via capace di rispondere alle domande ulteriori, passando ad esempio attraverso la percezione della bellezza (lo stupore è ancora emotivo), che è ciò che ci consente di non staccarci dal mondo. Infine sarà in grado di riconoscere “È giusto o è ingiusto?”, “È bene o è male?” come livello ultimo di capacità emotiva: usando una parola desueta parliamo di beatitudine, o felicità perfetta, con un’accezione propriamente educativa Guardini la definirebbe compimento, in termini più generali potremmo parlare (come faceva Frankl) di autoattualizzazione, che in nessun caso può essere confusa con un’autorealizzazione (nei termini psicologici maslowiani, che il bisogno stesso nega). Un Metodo delle domande critiche di alfabetizzazione emotiva rende possibile ognuno di questi passaggi progressivi di sviluppo e di crescita nel loro nesso con la capacità di significato all’interno di un processo pienamente educativo.
È solo il livello educativo della professione docente che, sulla base di quello istruttivo didattico-disciplinare, potrà introdurre a una capacità culturale di straordinaria apertura, in una modalità prima passiva e poi generativa. «Omnia probate, quod bonum est tenete».
Alla fine del 2006 Umberto Galimberti scriveva (Quella forza dei ragazzi senza cuore): «Scuola, scuola, scuola. So che i compiti che oggi vengono affidati agli insegnanti sono molti. Ma incominciamo da questo, perché senza il più elementare dei sentimenti umani, nessun processo culturale può partire».
(Manuela A. Cervi)
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