Tra la fine di giugno e l’inizio di luglio, la Società Patristica Ungherese ha organizzato a Nyíregyháza (nell’Ungheria nord-orientale) un convegno sul tema “Angeli e demoni”. Nella gradevole cornice del Pontificio Collegio Greco, punto di riferimento della vivace comunità locale greco-cattolica, diversi specialisti hanno affrontato il tema da vari punti di vista. Che cosa sono gli angeli nella letteratura cristiana primitiva? O meglio ancora, che cosa sono gli angeli per il credente del terzo millennio?
Oggi nel nostro immaginario collettivo gli angeli sono spesso rappresentati come putti alati. Punto di inizio di questo modo di raffigurarli è un famoso dipinto di Raffaello, la Madonna Sistina (oggi nella Pinacoteca di Dresda): il quadro rappresenta un’epifania mariana, in cui la Madonna col Bambino in braccio appare su una nuvola a San Sisto Papa e Santa Barbara. Al di sotto della nuvola vi sono due figure di angioletti, la cui presenza nel dipinto (oggetto peraltro di discussioni, perché né la destinazione, né certe particolarità compositive sono del tutto chiare) è stata interpretata in vari modi.
Le due figure sembrano legate più alle raffigurazioni di Eros del mondo ellenistico che alle raffigurazioni tradizionali degli angeli nella pittura medievale: il tutto pare coerente con la cultura di un’epoca che apprezza la letteratura e l’arte greco-romana in un clima di sostanziale sincretismo tra mondo pagano e mondo cristiano. Purtroppo la figura dei due angeli, estrapolata dal dipinto originario, è divenuta il prototipo di una tradizione infinita di angioletti-amorini sotto forma di bimbi alati con un’espressione tra l’ebete e l’annoiato, quali purtroppo si vedono in molte immagini sacre e anche nelle chiese.
Gli angeli della Bibbia sono tutt’altra cosa. Sono creature maestose e persino terrificanti, tanto è vero che gli uomini vedendoli provano turbamento e timore (si ricordi la reazione di Zaccaria nel tempio: Lc. 1, 12), e la prima preoccupazione dell’angelo è quella di rassicurare l’uomo presentandosi con parole come “Non temere”: così fa per esempio Raffaele con Tobit e Tobia (Tb. 12, 17), così fanno gli angeli che si manifestano ai pastori per annunciare la nascita di Gesù (Lc. 2, 10). Sono creature di solo spirito e prefigurano il destino finale dell’uomo salvato, come leggiamo in Luca 20, 36: “Essi (i salvati) non possono più morire, perché sono uguali agli angeli, e sono figli di Dio fatti degni della risurrezione”.
Gli angeli sono diretti interpreti della volontà di Dio, e hanno il compito di manifestarla all’uomo o di realizzarla. Tre sono indicati con un nome proprio (Raffaele, Michele e Gabriele) ed esiste fra le varie categorie di angeli una gerarchia, che pone al sommo vertice i Cherubini e i Serafini. In quanto esecutori della volontà di Dio, possono anche avere un compito distruttivo, quando Dio manifesta la sua collera e vuole punire le mancanze degli uomini: così con gli egiziani “Dio riversò uno sdegno e un furore pauroso, un esercito di angeli di sventura. Diede libero sfogo alla sua collera, non li risparmiò dalla morte, abbandonò i loro corpi alla peste” (Ps. 78, 49).
Gli angeli formano il potente esercito con cui Dio combatte il dilagare del male. “Sanctus sanctus sanctus dominus Deus sabaoth“, “Dio, Signore degli eserciti” si diceva nella Messa, e con quest’ultima parola misteriosa, che le antiche traduzioni della Bibbia spesso avevano preferito lasciare nella forma originale, si alludeva alle schiere dell’esercito celeste pronte a lottare contro il male. In ambito cristiano e nella liturgia si è preferito interpretare l’espressione come “Signore Dio di tutto il creato”, anche che se in realtà il riferimento agli eserciti e alla lotta contro il male non sembra in contrasto con l’immagine del Dio di pace e di misericordia che il Nuovo Testamento ci propone.
Una riflessione merita la storia della parola che designa questi esseri intermedi fra l’uomo e Dio. Nel testo ebraico “angelo” si dice mal’ak, termine che originariamente ha il valore generico di “messaggero”, e indica chi è latore di notizie o di ordini per incarico di altri. Nella traduzione greca dell’Antico Testamento per rendere la parola ebraica fu utilizzato un termine greco che aveva lo stesso significato, ángelos, parola di ignota origine (probabilmente presa a prestito da una fonte orientale). La parola, ampiamente diffusa nel lessico pagano fin dai testi più antichi, indica il messaggero (uomo o divinità) che porta un annunzio sia per incarico di un’autorità superiore sia (più raramente) di propria iniziativa.
In alcuni contesti quella dell’ángelos diventa una funzione ufficiale: l’ángelos nella tragedia greca ha il compito di dare notizie e di rispondere correttamente alle domande del destinatario, ricevendo un compenso per l’incarico svolto. In quanto traduzione di mal’ak, nella traduzione della Bibbia la parola greca allarga il suo valore e si adatta anche a designare gli esseri celesti di cui parla il testo biblico. La parola non aveva mai avuto prima questo significato. Anche vari autori pagani accennano all’esistenza di esseri celesti intermedi fra l’uomo e la divinità, ma non designano mai queste creature col nome di ángelos: il termine che si usa correntemente è quello di daímones, demoni.
La tradizione cristiana impiegherà questo termine per contrapporre agli angeli buoni gli “angeli cattivi”. La Bibbia su questo punto è tanto chiara quanto reticente: come non dice nulla sull’origine degli angeli, che non compaiono nel racconto della creazione riportato dalla Genesi, così accenna appena alla loro caduta, senza dirci nulla sul loro errore: non sappiamo quale sia stata la ragione che li ha disorientati fino alla perdizione, certo prima della creazione dell’uomo, dal momento che già nell’Eden il demonio è presente con la sua “voce seduttrice” e un manipolo di angeli viene posto a custodire l’ingresso dell’Eden. L’unico accenno è nella Seconda lettera di Pietro (2, 4): “Dio infatti non perdonò agli angeli che avevano peccato, ma, condannandoli al tartaro, li confinò nelle fosse tenebrose perché vi fossero trattenuti fino al giudizio”.
La tradizione cristiana accetta senza esitazione questa visione, che è divenuta parte integrante delCatechismo della Chiesa Cattolica (§§ 392-393). Il peccato degli angeli è definitivo: non vi fu per loro né possibilità di pentimento né Redenzione. Un vescovo del IV-V secolo, Nemesio di Emesa (quella che oggi è la martoriata Homs), in un trattato Sulla natura dell’uomo, oggi ingiustamente trascurato ma diffusissimo in epoca medievale (lo provano anche le numerose versioni: latine, armena, araba, siriaca, georgiana), spiega che l’impossibilità di pentimento è dovuta al fatto che gli angeli non avevano il condizionamento del corpo, che rende l’uomo più fragile, disponibile al peccato e destinato alla corruzione. Dio accettò di condividere la natura dell’uomo e di patire fino alla morte in croce per quella creatura imperfetta e mortale, ma fatta a sua immagine e somiglianza, che è l’uomo, mentre per gli angeli, fatti di solo spirito e immortali, non vi fu Redenzione.
Nei testi latini la parola greca viene ripresa nella forma angelus, termine completamente nuovo che non si incontra mai nel latino pagano. A differenza del termine greco, che contiene sia il significato di “messaggero” sia quello specifico cristiano di “essere celeste”, la parola latina ha solamente questo secondo significato, tanto che alcuni autori antichi si premurano di ricordare ai lettori o agli ascoltatori inesperti di greco che angelus è parola derivata dal greco che aveva il valore di nuntius olegatus. La parola passa poi a tutte le lingue d’Europa, di ogni famiglia e ramo: come hanno sottolineato alcuni commentatori, abbiamo in questa diffusione del termine un ottimo esempio dell’influenza del cristianesimo sul vocabolario (e, aggiungerei, anche sulla tradizione culturale dell’Occidente).