La scuola media sorge in Italia nel quadro di un movimento generalizzato che caratterizza le società occidentali dopo la Seconda guerra mondiale in direzione del modello comprensivo di istruzione post-elementare. È un aspetto decisivo del processo di democratizzazione. Risponde all’ spirazione di mettere tutti, di chiunque siano figli, nelle condizioni di partecipare alla discussione degli affari pubblici per mezzo della generalizzazione degli strumenti intellettuali che rendono effettiva questa partecipazione.
Da noi, la sua istituzione, negli anni del primo centro-sinistra, corrisponde ad una presa d’atto che sta tutta nei numeri della scolarizzazione secondaria. Dal 1945-46 al 1960-61 la popolazione di quella che sarebbe diventata solo a partire dall’autunno del 1963 la scuola media, e che allora si divideva principalmente tra la scuola media di Bottai e i molteplici indirizzi della scuola di avviamento professionale, triplica i propri contingenti, passando da poco più di 500mila studenti a un milione e 400mila. Più lento, ma altrettanto imponente, è il processo dell’istruzione superiore. Qui, gli istituti avevano conosciuto nel primo quinquennio del dopoguerra una crescita annua costante ma molto contenuta. Tanto per avere una misura rispetto al ciclo inferiore, di 5 a 42. Guardati invece a dieci anni di distanza la loro demografia appariva letteralmente esplosa. Rispetto al 1945, gli studenti dell’ istruzione secondaria superiore erano raddoppiati e così il tasso del loro incremento annuo tra il 1950 e il 1960.
Questo è, sommariamente delineato, il ciclo scolastico dell’istruzione post-elementare nell’Italia del primo quindicennio dopo la Seconda guerra mondiale ed è su questo sfondo che bisogna considerare l’istituzione della scuola media unica.
Un altro elemento di contesto che pure va richiamato riguarda le profonde trasformazioni economiche e sociali che il Paese vive in quello stesso giro di anni e di cui la dinamica della scolarizzazione post-elementare è uno specchio fedele.
Di queste trasformazioni vanno messe in evidenza due aspetti, strettamente collegati, e che ci aiutano a comprendere meglio il significato della scuola media unica. Questi due aspetti sono la nuova composizione sociale dell’Italia alla fine degli anni Cinquanta, quando la quota della popolazione attiva nell’agricoltura crolla dal 42 per cento all’inizio del decennio al 27 del 1961, e la grande migrazione interna, non solo dal Sud al Nord ma, più in generale, dalle zone interne e montagnose della Penisola alla costa e alle aree urbane o in via di rapida urbanizzazione. Un duplice movimento, insomma, in direzione del lavoro industriale e terziario e in direzione della città.
La scuola media unica fu la risposta culturale a questo insieme di trasformazioni. Culturale, nel senso che rappresentò il modo con il quale la classe dirigente del tempo interpretò l’insieme dei processi che stava investendo il Paese e il ruolo che essa era chiamata a svolgervi.
È bene sottolineare questo aspetto: l’istituzione della scuola media unica non rivoluziona le statistiche dell’istruzione post-elementare nell’Italia del dopoguerra. La fuoriuscita delle classi popolari dai limiti ottocenteschi di una scolarizzazione sulla base degli elementi è già in corso ben prima dell’istituzione della nuova scuola. La scelta compiuta in favore del modello unico è una interpretazione possibile di questo processo.
Va anche aggiunto a questo proposito che si tratta di una interpretazione non molto chiara e soprattutto contrastata, come testimoniano le polemiche sulla conservazione del latino e in particolare sugli insegnamenti opzionali: fin da subito, in altri termini, la scuola media appare incerta tra il radicalismo di chi vuole un tipo unico di istruzione per tutti e chi pensa ad un insegnamento differenziato sulla base di un nucleo comune di saperi. Né vanno trascurate le posizioni ideologiche più arretrate, anche in ambito cattolico, dove l’idea di una scolarizzazione popolare affidata ancora ai maestri elementari appare tutt’altro che marginale.
Come ho detto all’inizio il movimento verso un tipo comprensivo di istruzione secondaria iscrive la politica scolastica dell’Italia all’inizio degli anni Sessanta in un quadro più vasto e che per restare all’Europa ne riscrive la geografia educativa lungo una nuova linea di partizione, che dai Paesi Scandinavi e dall’Inghilterra scende verso il Mediterraneo e include la Francia e appunto l’Italia, seppur in forme diverse e fino ad anni recenti più limitate, lasciando fuori insieme all’Irlanda del Nord il blocco tedesco dell’ Europa continentale, Austria e Germania, e l’area della sua influenza fino all’Ungheria.
Questo movimento, che ha dunque una portata molto vasta, si compie nel giro di due decenni. A livello europeo, si può dire concluso a metà degli anni Settanta. Il suo risultato è quello di istituire l’educazione formale di livello secondario come il terreno fondamentale sul quale nella seconda metà del Novecento la popolazione giovanile delle diverse società nazionali acquisisce un nuovo status. È qui insomma che diventano comprensibili gli anni Sessanta e Settanta in Europa dal punto di vista della formazione di una nuova soggettività giovanile.
Ora, a cinquant’anni dalla sua istituzione, la scuola media è di nuovo in questione. Per la verità le obiezioni che le vengono mosse non sono completamente nuove. Come abbiamo visto, fin dall’inizio la sua nascita fu accompagnata da molte polemiche, che investivano tanto la qualità della preparazione degli studenti alla fine del triennio (e degli insegnanti nell’esercizio delle loro funzioni), quanto più generalmente l’identità stessa della scuola unica. Mentre invece passò in secondo piano, e si tende a non ricordarlo neppure oggi, il grande investimento pubblico per dare agli italiani nuovi edifici scolastici e per reclutare insegnanti come mai in passato.
Negli anni che sarebbero venuti, ad ogni modo, la scuola media si sviluppò stretta tra il ricatto ideologico dell’unicità (non solo il latino, ma ogni opzione veniva guardata come il tentativo di sabotare la democratizzazione dell’istruzione dell’obbligo) e l’idea di una generalizzata inadempienza pedagogico-organizzativa (persistenza di antichi costumi didattici, assenza di doposcuola e di forme moderne di tutoraggio per gli studenti più svantaggiati, ecc.).
Oggi le maggiori obiezioni sembrano concentrarsi sul terreno dell’occupabilità dei giovani italiani e sul rapporto tra scuola e mercato del lavoro (il tema dominante è sicuramente la transizione verso un’istruzione secondaria superiore di tipo tecnico-professionale), ma non aggiungono molto al quadro noto delle insoddisfazioni e delle critiche. La novità è, semmai, nel contesto di un forte indebolimento del ruolo politico e civile dell’istruzione pubblica, la forte pretesa avanzata dalla Confindustria e dai suoi apparati ideologici a funzionalizzare la scuola agli “interessi dell’officina”.
Personalmente non sono convinto che sia questo il terreno giusto di comprensione della nuova questione scolastica nel nostro Paese.
(1 − continua)