Solo i più anziani del mondo della scuola e gli studiosi a vario titolo o i politici di lungo corso hanno ricordi ancora vividi dell’attività di Franca Falcucci (1926, 4 settembre 2014) quale ministro della Pubblica istruzione dal 1° dicembre 1982 al 28 luglio 1987, nei Governi Fanfani V, Craxi I e II, Fanfani VI. Fu la prima donna a fare il ministro dell’Istruzione, provenendo dal movimento femminile democristiano e dall’associazionismo cattolico. Prestata dal mondo della scuola alla politica, visse in quest’ultima come un regolare impegno scolastico. Uno dei pochissimi ministri che partecipava ai convegni dall’inizio alla fine, prendendo appunti, e che si recava al ministero con la puntualità che i suoi dipendenti raramente rispettavano. Uno dei pochi politici che parlava inglese!
Il suo ministero si trovò ad affrontare più di una procella, sia quelle spumeggianti della piazza sia quelle felpate della politica.
Quanto alle prime, avrà a che fare con il cosiddetto Movimento dell’85 degli studenti, assai meno ideologico di quelli precedenti del ’68 e del ’77, più concreto nelle piattaforme rivendicative, più stufo di attendere riforme che non arrivavano mai, mentre il sistema stava aumentando la produzione di drop out, più esasperato. Dal 1972 erano annegati nella palude parlamentare una ventina di progetti o disegni di riforma: 22 fallimenti al 1987. Intanto la crescita della scolarizzazione aveva portato ad una pressione sindacale crescente per dilatare il numero di posti di insegnamento necessari. L’introduzione delle Doa (dotazione di organico aggiuntive) ad integrazione dell’organico di diritto, poiché in via di fatto non bastava, aveva portato a esondazioni clientelari e alla formazione rapida di una placca sempre più estesa di precariato, che si veniva organizzando, attraverso vecchi e nuovi sindacati. Così 40mila inseganti precari il 23 maggio 1987 sfilarono in piazza a Roma contro il ministro, contro partiti e sindacati e, persino, contro lo Snals, che aveva avuto il coraggio di denunciare la dilatazione a dismisura del personale, ben oltre i fabbisogni reali della scuola. Il che comportava, tra l’altro, bassi stipendi per tutti.
Alla fine, il confronto tra governo e sindacati confluirà nel DPR del 10 aprile 1987, n. 207, che ispirerà il Contratto nazionale di categoria del 4 agosto 1995.
Quanto alle seconde: la Falcucci si trovò ad affrontare il tema scottante del rinnovo dei programmi della scuola elementare, ancora fermi a quelli previsti dal DPR 503 del 12 febbraio 1955. Erano passati quasi trent’anni, le trasformazioni socio-culturali erano state ingenti. Si affrontavano, sul tema, uno schieramento più conservatore e uno più innovatore, che tendeva ad un’impostazione cognitivista e mentalista – alla Chomsky, alla Piaget, alla Bruner. La conseguenza era il passaggio da quello che nel dibattito di allora era chiamato “il bambino intuitivo” a quello “cognitivo”. Sul piano pratico significava introdurre nuove materie con conseguenti moduli, e una pluralità di figure docenti. Venivano avanti tendenze all’accentuata secondarizzazione della scuola elementare.
A questa era assai favorevole il sindacato, perché si trattava di un evidente sbocco occupazionale ulteriore per precari e disoccupati. Non è questo il luogo per riferire dell’ampia discussione che si scatenò tra i pedagogisti di varie tendenze. Alla fine, la Falcucci riuscirà a mediare e a limare le tendenze più accese verso la secondarizzazione, con il DPR n. 104 del 12 febbraio 1985. Sarà trasformato, con il contributo moderatore della Falcucci, ormai non più ministro, nella legge 148 del 5 giugno 1990, ministro Mattarella.
Intanto veniva avanti il Nuovo Concordato, le cui ricadute sul piano della scuola erano evidenti, relativamente all’insegnamento della religione. Le mediazioni del ministro, anche rispetto al proprio universo di riferimento, confluiranno nel Decreto del Presidente della Repubblica del 16 dicembre 1985.
Dove la Falcucci ha lasciato una traccia molto profonda è stato quello della Riforma. Dopo il fallimento dei molti progetti parlamentari, presentò al Senato, per un ultimo tentativo, un Piano il 1° ottobre del 1986. Affrontò con piglio ruvido l’Assemblea dei senatori, dichiarando che la scuola era stufa di aspettare. Si trovò contro non solo le opposizioni, ma anche pezzi della Dc e degli alleati socialisti e liberali. Il Piano prevedeva, tra l’altro, la riduzione degli indirizzi da 177 a 27, i bienni a 36 ore settimanali per tutti, con ore di 50 minuti, l’obbligo statale a 16 anni, ma da realizzare solo nel sistema statale, e storia contemporanea nel biennio. E molto altro ancora, soprattutto relativamente alle materie. Soprattutto in relazione all’insegnamento della storia, lo schieramento di governo preferiva la storia antica e medievale, la sinistra puntava di più sulla storia contemporanea.
In ogni caso, il ministro fu costretta constatare che il Parlamento continuava ad essere un porto delle nebbie. Fu allora che la Falcucci incominciò a percorrere la strada del dirigismo amministrativo, cercando di far passare per via burocratica quelle riforme che la politica negava. Aprirà la strada alla Conferenza nazionale della scuola del 30 gennaio-3 febbraio 1990, ministro Mattarella, e alla Commissione Brocca, che procederà lungo gli anni 90 a modificare e ristrutturare il sistema per via amministrativa. Tuttavia si dovrà constatare che gli effetti inattesi di questa procedura portarono all’esplosione incontrollata di sperimentazioni, la cui valutazione rigorosa non venne mai fatta. Ma si ottenne anche qualche risultato positivo: le sperimentazioni avvicinarono concretamente le scuole alla pratica dell’autonomia, che peraltro la Conferenza nazionale aveva posto a fondamento del nuovo possibile sistema, insieme alla valutazione. La legificazione dell’autonomia di Bassanini-Berlinguer del 1996 e il DPR 275 del 1999 hanno alle spalle questa pratica.
Questo excursus breve sulla biografia politica di Franca Falcucci c’entra qualcosa con il dibattito attuale su La buona scuola? Come è evidente, tornano i temi irrisolti, cioè tutti, e i dilemmi di allora. L’unica differenza percepibile, ma tutta da verificare, riguarda l’attenzione della politica. All’epoca era pigra, mentre l’amministrazione, con a capo una donna energica e lucida, era all’avanguardia, e i sindacati puntavano sul proprio insediamento e stop. Ora, pare che la politica si sia svegliata, il sindacato strascica i piedi, l’amministrazione sta nel mezzo.