Pomeriggio luminoso di giugno 2013 a Berlino. Riflessi d’oro galleggiano sulla Sprea, specchio di verde. Quartiere di Kreuzberg, nel punto dove passava il confine tra le due Germanie e la città era dimidiata. Di quel passato resta solo un’ombra: una striscia di mattoncini dal percorso irregolare, su cui a intervalli una targa in piombo ricorda: “Muro di Berlino, 1961-1989”. Il botteghino di un teatro. Le scritte al neon scorrevoli all’entrata lampeggiano con il titolo dello spettacolo in programma: “Aspettando i barbari, dal romanzo di J.M. Coetzee“. Arriva un uomo bruno. Lo sguardo è nascosto da scuri ray-ban di stile militare. Mi impone di seguirlo. Da quel momento in poi, inizia un percorso nei meandri dell’edificio: corridoi asfittici e dietro ogni porta pesante stanze buie – è una finzione, mi ripeto. La prima stanza è quella dell’interrogatorio: un ufficio senza finestre, illuminato da una fioca e tremante lampadina, gli arredi di formica beige, un uomo dal volto lattiginoso, che non riesco a guardare negli occhi, mi chiede chi sono, che faccio, perché sono qui e se so da che parte del confine sto, dico di no, mentre il disagio cresce mio malgrado (è solo una finzione, una installazione, uno spettacolo). Nessun commento tranne il ticchettio della macchina da scrivere (un anacronismo, chi usa ancora macchine da scrivere?). Brusio in sottofondo, una radio o una ricetrasmittente, ma la lingua non si capisce.
La ricostruzione risponde alla descrizione dell’ufficio del capitano Joll, l’aguzzino, nel romanzo di Coetzee Aspettando i barbari (1980). Nel romanzo si svolge la vicenda di un magistrato in un lontano e isolato avamposto dell’Impero, sospettato di essere dalla parte dei “barbari”, senza che davvero si sappia chi siano i “barbari”, anche se regna l’angoscia per una loro invasione, si scorgono – pare – ombre pericolose al di là di un confine che si affaccia su una terra di nessuno, la tortura, l’ansia, i modi di un Impero che continuano i modi di un altro Impero.
Intanto, nella città dell’Impero, si continua a imprigionare e a barbaramente torturare. Ed è proprio quel che accade nella città che viene rappresentato nello spettacolo. Da un interrogatorio si passa ad un altro. Ogni risposta è sbagliata. Ha con se oggetti pericolosi?, mi chiede una donna algida, bruna di carnagione, dai lineamenti duri. – No, naturalmente, dico. – Non è vero. I lacci delle scarpe lo sono. Ha un accendino con sé? Lo lasci qui. Anche il cellulare. Qualcuno sa che Lei è qui? Con chi vive? Da quanto tempo? Perché vuole andare fuori dai confini? Sa che qualcuno l’ha denunciata? Qualcuno che la conosce?
L’ha denunciata perché ha fatto qualcosa che non doveva? Vuole raccontarci cosa ha fatto? E mi rendo conto che gli attori (si tratta di attori, vero?) mi hanno portato sulla frontiera invisibile della paura; non so più da che parte sto, e dubito di saperlo anche fuori da questo teatro in cui ho smesso di essere spettatrice e sono diventata protagonista.
Quale è il mio “Impero”? A quale cultura appartengo e quante volte al giorno devo superare frontiere, ogni volta che digito un PIN o una password, ogni volta che devo “autenticarmi” per accedere ad uno spazio virtuale, ogni volta che all’aereoporto passo sotto sconosciuti raggi? Quante volte al giorno trasgredisco confini? Qualcuno ha mai letto le mie mail o i miei sms? Ha violato le mie parole d’amore o di risentimento? Ha attinto ai miei file o al mio conto corrente? Devo difendermi? Posso difendermi?
In una delle ultime stazioni della performance teatrale, si entra in una roulotte: dietro a un vetro una donna bionda, giovane, bella (una “barbara”? potrebbe essere rumena o ucraina) si trucca, si spoglia, si specchia e nello specchiarsi mi guarda (lo sa che sono qui, e mi provoca. Sa che sono una donna? Oppure sa solo che un indefinito spettatore sta al di là del vetro?). Cosa provo nei suoi confronti? Paura, necessità di difendermi? Un’attrazione insidiosa, inammissibile, la repressa curiosità di scoprirla mentre si passa sulle labbra il rossetto, si prepara forse all’amore? Desiderio di vederla mentre fa l’amore? Voglio essere lei? Voglio essere bella come lei o un’attrice come lei? Di cosa mi parla? Muove le labbra ma non capisco. Qualche parola in inglese, l’accento straniero ma indistinguibile, domande a cui non aspetta risposta. A quali sensazioni inconfessate riesce a fare appello mentre avvicina la sua bocca allo specchio (sa che io sono qui), sussurrando “vieni, vieni, vieni”? Vieni dove? I desideri sono anch’essi confini fragili come vetro? Di quanto coraggio abbiamo bisogno per specchiarci in un altro? Di quale forza per abbandonarci ad un abbraccio?
Lo spettacolo finisce d’improvviso, con una porta che si apre nell’uscita di sicurezza, scale che portano fuori, dove tutto è immutato. Il rumore del traffico affannoso del venerdì sera. Berlino, di nuovo. Una Berlino che non dorme, che sogna anche quando è giorno, aperta come gli Spätkauf, i negozi notturni, 24 ore su 24, arrogante come un ubriaco, in movimento come i suoi marciapiedi, Berlino che dimentica costruendo di nuovo sulle rovine e ricorda finanziando il progetto del Castello che fu di Federico il grande. Berlino, in continuo trasloco.
Aspettando i barbari di J.M. Coetzee suscita domande che mettono in discussione il nostro stesso stare al mondo. Questa capacità di porre domande non è di tutti i libri, ma solo dei classici. Incontrare un classico è un’esperienza individuale, che sfugge alle definizioni. Cos’è un classico?
Classico, non tanto perché posso rispecchiarvi me stessa, i miei dubbi, le mie irrisolte questioni; classico, non solo perché vi ricorro nei momenti difficili o in quelli dell’esaltazione; classico non perché mi innamora e sconvolge o rompe il mio ghiaccio interiore. Classico perché vi si specchia l’umano. L’umano in tutti i suoi abissi e le sue crudeltà, i suoi demoni. L’umano nelle sue possibilità – ma anche nelle incapacità. L’umano nel suo cuore oscuro, il male, che va raccontato, nella sua nudità se possibile, perché lo si possa, se non evitare, prevedere, presentire, conoscere.
Il classico è l’umano. Lì dove la dignità umana viene difesa e tutelata, dove si denuncia la violenza e la tortura, dove l’uomo, come la più terribile di tutte le cose, si rivela nelle sue capacità di pensare, sentire, amare, lì siamo in presenza di un atto estetico e morale che si può definire “classico”. In questo senso, dunque, classico è tutto ciò che si oppone alla barbarie del cuore umano.
Classico è quel gesto che abbraccia l’umanità nella sua interezza e l’atto d’amore è il culmine dell’abbraccio. Saper abbracciare, concedersi, abbandonarsi all’amante, è un atto difficile: dall’amore ci si difende, dal troppo amore ci si protegge, si ha paura di cadere nei buchi profondi del cuore, lì dove si annida l’inspiegabile. L’arte che riesce a raccontare un abbraccio d’amore è classica.
Tuttavia la mimesi perde l’agone con la realtà: l’arte resta in secondo piano rispetto alla vita. Come talora ci si può innamorare dell’idea dell’amore, dell’idea di una persona invece che di una persona, così il classico può restituire l’idea dell’umanità, ma l’amore è racchiuso nell’odore, nella carne, nella concretezza dell’essere amato, e il riflesso dell’uomo che è dato dall’arte resta un riflesso, e non può e deve trasformarsi né in un ideale né in un modello.
La qualità principale, costituiva, del classico è il suo perdurare, la sua resistenza. Classico è quel che supera le tempeste della storia e i suoi orrori, che è sopravvissuto ad esempio ai campi di concentramento e all’apartheid, che ha sfidato i secoli e ha conservato la dignità dell’uomo anche nei momenti in cui solo la vergogna poteva prevalere. Perciò il classico ha la capacità di parlare oltre la storia, perché il linguaggio dell’umano (che va al di là dell’interpretazione) si ascolta oltre le epoche e gli spazi geografici.
Classico: ciò che è umano, ciò che resiste e aiuta a resistere, ciò che passa al vaglio del tempo e di giudici competenti. Classico: il cuore che cerchiamo in un mondo spesso senza cuore.
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Sul tema è appena uscito: Sotera Fornaro, “Che cos’è il classico? Il classico in J.M. Coetzee”, Edizioni di Pagina, Bari, 2014