I ricordi si affollano alla memoria, talvolta in modo lucido e altre volte in modo concitato e confuso. Del resto, da quel 28 maggio 1980, un mercoledì di una strana primavera in cui morì Tobagi, sono passati trent’anni. Una vita, si può dire. Rievocare oggi quel contesto italiano, lo spirito di quel tempo sotto un profilo culturale, politico e sociale, è ormai oggetto di storia. Significa ricostruire un’altra stagione, un’altra epoca. Ci sono le testimonianze personali, perché quel passato è ancora relativamente recente. Ma le visioni personali della realtà, come è ormai noto, sono molteplici, inficiate da ricordi personali e spesso incollate come un puzzle con tessere imprestate da giornali e “sentito dire”.
Non per nulla il delitto Tobagi diventò a un certo punto il “caso Tobagi”, con polemiche e divisioni che ancora esistono e che attraversano la stessa cerchia delle amicizie di Tobagi. Ora nella ricorrenza di questo trentennio, bisogna avere il coraggio e la forza di superare questo clima di divisioni e onorare, insieme, il ricordo di un uomo che fu ammazzato per le sue idee, per quello che rappresentava nel mondo del giornalismo, della cultura, della politica e della società italiana. Ognuno ha il diritto di rispettare i suoi tempi nell’avere un’immagine complessiva di Tobagi, della sua vicenda umana e della sua tragica morte. Nel primo quindicennio successivo al delitto, il ricordo di Tobagi era piuttosto contenuto. Scomparve persino dalle pagine del suo giornale durante la cosiddetta stagione di Tangentopoli. Oggi il ricordo di Walter Tobagi è più corale ed è veramente confortante che, in questo trentesimo anniversario, il suo giornale, il Corriere della Sera, lo ricordi con due convegni e un libro.
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Resta il piccolo orgoglio (non certo di rivincita) di qualcuno per averlo ricordato sempre. Forse si pensava, con una certa foga, di fare rivivere Walter e di non arrendersi di fronte alla sua morte prematura. Walter Tobagi era profondamente cattolico, praticante, e aveva simpatie socialiste. Aveva fondato, con altre dodici persone, nell’ottobre del 1978, una nuoca corrente nel sindacato dei giornalisti, “Stampa democratica”. E soprattutto era un giornalista lucidissimo nell’analizzare il mondo del terrorismo italiano, fin da quando giovane cronista di Avvenire aveva esplorato l’estremismo e tratteggiato con profondità la figura dell’editore Giangiacomo Feltrinelli.
In più non si sottraeva, nel suo scrivere quotidiano, a un giudizio meditato e motivato. La sua posizione sul “caso Moro”, vicina a quella socialista dell’epoca, cioè la linea della trattativa, era sopportata con malcelato fastidio dalla stessa direzione del Corriere della Sera, bloccata intorno al cosiddetto partito della fermezza. E oggi mi incuriosisce quello che Walter penserebbe rispetto a un monumento edificato in onore di Aldo Moro, da cui spunta una copia de L’Unità da una tasca dell’abito raffigurato dello statista democristiano. Così come veniva aspramente contestato come sindacalista dei giornalisti e come grande giornalista di punta del Corriere della Sera. Ma lasciamo perdere questi ricordi e questi discorsi, perché mi rendo conto che volendo mettere le polemiche fuori dalla parta, si rischia di rivederle entrare dalla finestra.
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È giusto invece ricordare lo spirito libero di Walter Tobagi, che rivendicando le sue idee e la sua appartenenza, affrontava ogni argomento senza pregiudizi. Si documentava con una passione culturale indomabile e poi cercava pure una risposta nell’esperienza di vita degli altri. Walter usava un metodo scientifico di ricerca, rigoroso, adattandolo a una professione per sua natura schematica e pressapochista come quella del giornalismo. Nei suoi articoli chiari e limpidi, l’esatto contrario delle stile aggressivo e cosiddetto “spumeggiante” di oggi, si vedevano nitidamente una grande cultura, mai improvvisata, una documentazione rigorosa, una serietà impressa nel dna, una grande passione civile, sociale e politica. Tutto questo costituiva un metodo, di studio, di lavoro e di vita. Uno stile inappuntabile in un epoca dove predominava soprattutto l’improvvisazione culturale e la sgangheratezza politico-ideologica.
Era un uomo che cercava Walter, che cercava appassionatamente non una oggettività impossibile, ma una ragionevole verità. In questo suo metodo di lavoro e di stile, Walter Tobagi era e dovrebbe diventare un esempio di fronte alle schematizzazioni, all’indifferenza e alla noia dei nostri tempi. Non è un caso che il migliore epitaffio della morte di Tobagi lo abbia fatto un grande scrittore come Leonardo Sciascia che sottolineò come Tobagi era un uomo che “aveva metodo”. Sciascia bypassava anche le aspre polemiche tra colleghi tutto con quel giudizio sintetico, che non era solo frutto di una lucida e fredda razionalità, ma che coglieva pienamente l’importanza dell’impegno di una vita per la conoscenza di fronte a una società che lentamente si stava nutrendo solo di apparenze e sensazioni transitorie e illusorie.