Alle pendici orientali dell’Etna, in un territorio di vigneti e di pini, si annida una “piccola capitale dell’arte del Novecento”. Così Vittorio Sgarbi ha definito Linguaglossa; che non solo vanta chiese e sculture seicentesche, ma annovera un XX secolo di tutto rispetto, segnato com’è da personalità quali Francesco Messina e Salvatore Incorpora. Destini incrociati, i loro: Messina, nato proprio a Linguaglossa, doveva abbandonare precocemente quella couche per trasferirsi definitivamente al Nord; al contrario, il calabrese Incorpora sarebbe approdato ben presto in Sicilia, facendo della cittadina etnea la sua patria elettiva. I due non si incontrarono mai. Ma nel 1954, Incorpora scrive a Messina, rivendicando il proprio diritto-dovere al grido, alla deformazione, alla sgrammaticatura se necessario. Nella stessa lettera, affiora a un certo punto anche il nome di un altro artista siciliano, Renato Guttuso, che Incorpora ama includere fra i suoi riferimenti.
Si capisce che proprio a Linguaglossa abbia luogo adesso una mostra intitolata a questi maestri: “Guttuso Incorpora Messina. Inedite visioni ai piedi dell’Etna” (2 luglio-31 ottobre). Attraverso i loro quadri e le loro sculture, i tre si misurano, prendono atto fino in fondo l’uno dell’altro, trovano sinergie, si contraddicono magari, e con assoluta franchezza, come in un dialogo che non diviene dialettica in vista di una sintesi, ma si fa coesistenza di diversi, senza che nessuna posizione risulti egemonica.
I curatori di questa mostra, Vittorio Sgarbi e Antonio D’Amico, non intendevano officiare una liturgia del già noto, ma nemmeno semplicemente promuovere quanto non si conosceva; loro ambizione era piuttosto una proposta interpretativa, alla ricerca di significati e connessioni. Emerge così un tratto comune ai tre artisti siciliani, inclini a una fondamentale lealtà con il reale; lealtà che si traduce in salvaguardia del figurativo. Su questa piattaforma condivisa, crescono peraltro divaricazioni non indifferenti. Messina cerca in ogni cosa l’idea di essa, e modula le forme sottraendo gli aspetti contingenti, con esiti di assoluta e lirica essenzialità, sia nei casi di statica quiete (come la Venere del Brenta) sia in quelli, solo in apparenza contrapposti, di vertiginoso dinamismo (è presente alla mostra uno dei suoi caratteristici cavalli). Al contrario, Guttuso e Incorpora sentono la pressione della storia e rendono testimonianza ai suoi scorci e frangenti, a costo di assumere entro le coordinate dell’arte la cronaca stessa, con le sue sporgenze più o meno effimere, perfino uno sciopero o una manifestazione di protesta. Mettere a fronte questi tre artisti conduce inevitabilmente a una conclusione del genere: uno sta a sé, gli altri due costituiscono un binomio solidale. Tuttavia, questa non è ancora l’ultima parola, poiché quel tandem, se osservato più da vicino, in se stesso, risulta meno compatto di quanto si poteva inizialmente credere.
Uno dei quadri di Guttuso che la mostra ripropone è A Garcia Lorca, un olio su tela del 1966, che rievoca gli ultimi momenti del poeta spagnolo, arrestato e condannato a morte dai falangisti. Lo sviluppo in verticale asseconda la postura eretta di Lorca, il quale inquadrato dalla testa ai piedi occupa quasi tutta l’altezza disponibile (a voler usare un gergo cinematografico, si potrebbe parlare di “full shot”). Non solo: il protagonista riempie l’intero campo, non essendo visibile nessuna altra figura. Eppure il momento non è quello intimo della tormentosa vigilia nella solitudine di una cella, ma quello pubblico dell’esecuzione: c’è un plotone già schierato e tra poco, tra qualche istante, farà fuoco. Ma il plotone non si vede, resta rigorosamente fuori campo; la sua presenza è segnalata solo dalle canne dei fucili, che appaiono a sinistra. Corrispettivamente, la vittima è presentata di profilo, mentre fissa in maniera ferma i suoi carnefici. La vittima o meglio l’eroe. Sul punto di morire, il condannato è in realtà il trionfatore; non esiste che la sua sete di giustizia, la sua dedizione alla causa, il suo coraggio, il suo disprezzo della morte, la sua infinita superiorità morale sugli assassini, che nemmeno meritano di comparire, se non nello sguardo altero che li giudica. Questo sguardo è suprema coscienza della storia, possesso delle sue ragioni autentiche, destinate prima o poi a imporsi, tanto meschini, inessenziali, irrilevanti risultano gli oppositori.
Spostiamo adesso l’obiettivo su un altro quadro della mostra, I moti di Reggio Calabria del 1971, un olio su tela di Salvatore Incorpora. La rivolta esplosa nel centro calabrese, in seguito alla collocazione del capoluogo della regione a Catanzaro, aveva fortemente impressionato Incorpora. E di quell’ira, di quella collera popolare, che dilagava violentissima, lui, nativo di Gioiosa Ionica (in provincia di Reggio) si era risolto a dare testimonianza, senza attenuazioni e sordine. Nel quadro c’è tutta la virulenza della sommossa, i gesti esagitati, la volontà di colpire; e c’è anche un vistoso mimetismo, che non esita a riprodurre il bavaglio bianco effettivamente usato dai rivoltosi a travisamento dei volti. Ma si osservino bene i tre manifestanti in primo piano. Uno, al centro, in posizione frontale, impugna una spranga e l’ha sollevata in alto; un secondo, che gli dà le spalle, ne reitera l’atteggiamento, visto che anche lui sta levando il braccio, ed esattamente nello stesso modo, come in una sorta di eco. La differenza si insinua attraverso la terza figura, che sta di fronte a quella centrale, e ha i gomiti aderenti alla vita, la faccia leggermente piegata all’indietro, gli occhi chiusi. Nessuna incertezza è possibile: si tratta senza alcun dubbio di un ennesimo facinoroso, anche lui è in canottiera e bavaglio, esattamente come gli altri.
Eppure sembra il bersaglio di quella spranga. L’apparente “istantanea”, che a prima vista sembrava votata alla fedele riproduzione dell’evento, si rivela veicolo di una coscienza critica: la storia, anche nelle forze e nelle spinte che premono per la giustizia, è segnata dalla contraddizione e dal caos, tanto più acuti nei momenti in cui un giogo viene scosso, una prevaricazione contestata.
Il realismo di Incorpora non viene mai meno a una simile chiaroveggenza, e addita una frattura anche nelle inquadrature più serene (i paesaggi etnei, gli angoli di paese, gli interni con figure femminili); per questo, rappresenti una convulsione storica o una pausa con idillio, l’artista calabro-siculo infrange pervicacemente la grammatica delle forme. È anzitutto la nostra condizione a risultare sgrammaticata; chi la restituisce ha il dovere di non raddrizzare arbitrariamente le righe storte, e di tornare a sorprendere la sfasatura clamorosa, enorme tra gli esiti devianti e l’esigenza originaria di bene. Quell’esigenza che, abbandonata a se stessa, fatalmente sbanda, si corrompe, eppure è ancora lì, e chiede di essere accolta ed esaudita.