La Buona Scuola, il documento recentemente pubblicato ad opera del governo, si dettaglia in 12 punti nell’ambiziosa prospettiva di indicare le urgenze per stabilire un patto educativo, come affermato dal capo del governo Renzi in occasione della pubblicazione; intende rassicurare e persuadere, e per farlo si presenta in punti chiari, corredati da semplici (e poche) tabelle di schematizzazione delle key ideas and issues, con una indoratura di nobili dichiarazioni di principio e una infarinatura di mea culpa e riferimenti (in lingua inglese) a strategie aziendali (molto moderno), con qualche motto in lingua latina (molto rassicurante).
Chi il documento debba persuadere è chiaro, per quanto generico possa sembrare: “il Paese”, il “noi”, e di cosa altrettanto, per quanto generico possa sembrare anche questo; il governo lavora e mette la scuola (statale, non pubblica, si badi bene) al centro del suo “pensiero” (non del suo “agire”).
Non è, come affermato dal presidente del Consiglio, una nuova riforma della scuola, anche se annuncia “riforme”, dal reclutamento dei docenti (statali, la parte più corposa del documento) alla definizione di criteri meritocratici ma misurabili per l’avanzamento di carriera del docente (statale) fino alla necessità di una nuova alfabetizzazione (che riguarderà gli studenti …statali?). È un white paper, qualcosa di abbastanza interessante da attirare l’attenzione delle persone; io mi sono iscritta alla newsletter subito dopo aver scaricato il documento… (a voi decidere se questa affermazione sia un mea culpa o captatio benevolentiae) ovviamente per essere aggiornata e sentirmi parte del debate, che è già partito sulla stampa, con grandi e piccole analisi.
La mia (mea culpa) riguarda p. 94-95 del white paper, dedicate alle lingue straniere che gli studenti italiani non sanno, e che andrebbero quindi insegnate fin dalla scuola dell’infanzia, in particolare con il Clil, una metodologia “sperimentata con successo”, e che “va esteso significativamente nella scuola primaria e nella scuola secondaria di secondo grado”, cosa possibile attraverso un “rafforzamento deciso del Piano di Formazione con un’attenzione specifica alla preparazione dei docenti per l’insegnamento delle loro discipline in lingua straniera” (grassetto nel documento, con tanto di box con la definizione del Clil nella stessa pagine della tabella che mostra l’abilità di creazione dei contenuti digitali, e dove il Bel Paese è quart’ultimo).
Punto primo, la metodologia Clil è stata sperimentata con successo; mi sembra interessante riportare a questo proposito alcune osservazioni fatte nella plenaria conclusiva del ThinkCLIL2014, prestigioso convegno internazionale a scadenza biennale di tutto il gota del Clil, dai professori Chamot della George Washington University e Meyer della Università di Gutenberg, nonché membro del Graz Group.
Chamot ha sottolineato la necessità per un buon Clil di adeguate learning strategies dello studente; il buono studente è quello che ha tante learning strategies, le utilizza a seconda del problema di apprendimento che si trova ad affrontare, e che ha coscienza del discourse (della natura del testo) che ha davanti, diverso a seconda che ad es. si tratti di un testo espositivo o di problem solving; uno studente che ha un metodo di studio è lo studente che fa bene a scuola e fa bene il Clil. Meyer ha osservato che in Germania la didattica per sole competenze non funziona per procedere nel knowledge path, il cammino della conoscenza, e che una subject related literacy(una alfabetizzazione disciplinare, non una didattica procedurale e meccanica) è da costruirsi per fare buon Clil. Queste le nuove frontiere della ricerca perché il Clil sia una metodologia di successo.
Potrebbe venire, dalla alta riflessione del mondo accademico che è Clil-dedicated e quindi si preoccupa che il Clil funzioni per ragioni didattiche e non demagogiche, qualche utile riflessione per approntare i percorsi di formazione segnalati come necessari per i potenziali docenti Clil, nell’ipotesi di una revisione che dovrebbe essere radicale e immediata del modello di formazione del personale in servizio attualmente in vigore e in fase di parziale attuazione. Questo è un possibile secondo punto di interesse per un dibattito.
Magari anche facendo mente locale ad un omissis (involontario?) presente nel documento: il Clil, con l’eccezione dei licei linguistici dove il percorso è sugli ultimi tre anni, si fa solo nella classe quinta dei licei e degli istituti tecnici, ed affatto nei professionali. Il documento ne auspica l’estensione (su base volontaria o come norma da definire e poi da attuarsi?) alla primaria di primo grado e secondaria di primo grado. Ottimo suggerimento, ma poi niente Clil per tutti nei primi due anni della scuola secondaria di secondo grado e, tranne per gli studenti del liceo linguistico, nulla fino in quinta? Il rafforzamento dell’insegnamento delle lingue straniere va attuato “verticalmente nei diversi cicli”? Una condizione elementare per tale rafforzamento è la continuità dell’esperienza, soprattutto se si desidera che disciplina e lingua siano integrate o forse, piu propriamente, rifondate. Un possibile terzo punto di dibattito.