Il 23 dicembre scorso il neoministro dell’Istruzione Valeria Fedeli ha pubblicato un “Atto di indirizzo concernente l’individuazione delle priorità politiche” del Miur per il 2017. Esso individua nove priorità che si pongono in piena continuità con il precedente governo e con la legge 107/2015 “Buona Scuola”. Continuità peraltro tradita dalla rapidità con cui l’atto di indirizzo stesso è stato formulato. Il documento assume, infatti, come prima priorità “proseguire nel processo di implementazione e completa attuazione della legge n.107 del 2015”, ricalcando per buona parte le nove deleghe che la legge 107 affida al governo ai commi 180-185.
In particolare, il lungo e complesso comma 181 riguardava, alla lettera b) punti 1-8, il “riordino, adeguamento e semplificazione del sistema di formazione iniziale e di accesso nei ruoli di docente nella scuola secondaria, in modo da renderlo funzionale alla valorizzazione sociale e culturale della professione, mediante” — in primis — “l’introduzione di un sistema unitario e coordinato che comprenda sia la formazione iniziale dei docenti sia le procedure per l’accesso alla professione”.
In apertura dell’atto di indirizzo, la priorità politica 1 è il “Miglioramento del sistema scolastico: formazione iniziale/reclutamento, formazione in servizio, autonomia e valutazione”.
Una riflessione pare ragionevole proprio sulla formazione iniziale e sul reclutamento, a contributo di una mancata analisi dei dati che dovrebbe essere alla base di qualsiasi tentativo ulteriore. La mancata discussione giustamente invocata da G. Zen non giova alla politica dell’istruzione che, prima che il sistema, dovrebbe essa stessa esser tesa ad un miglioramento. Nel merito del focus qui scelto, cosa è accaduto quest’anno?
1) Un concorso a cattedra riservato agli abilitati di due cicli di Tfa, cioè secondo una tempistica che non ha rispettato il ritmo “ordinato” promesso dal ministro Profumo, per cui dopo ogni ciclo Tfa ci sarebbe stato un concorso riservato agli abilitati. Il concorso ha dato come esito un’altissima percentuale di bocciati, causa di una polemica tra alcuni atenei e il Miur, e tanti pasticci (lentezza nella formulazione delle graduatorie che ha lasciato a casa per quest’anno quasi la totalità dei vincitori, cattedre sparite, cattedre scoperte, accesso agli atti problematico, criteri di valutazione per l’orale stabiliti dalle commissioni e discutibili, paradossi come quello della candidata bocciata alla prova scritta e chiamata a fare il commissario).
2) L’immissione in ruolo di tanti precari attraverso diverse fasi, che ha nella sostanza posto rimedio per buona parte alla condanna a carico del nostro Paese come formulata dalla Corte Europea di Giustizia. Precari che hanno dovuto accettare l’eventuale spostamento in altre regioni, mortificando l’unità del nucleo familiare, e che poi sono stati fatti tornare a casa con incarico su sostegno anche senza specializzazione (!). Con ciò ledendo i diritti dei neo-specializzati su sostegno che avevano ottenuto il titolo a caro prezzo (4mila euro circa).
3) Senza alcuna motivazione o ragionamento apparente è saltato il terzo ciclo del Tfa (è stato invece pubblicato un altro bando per la specializzazione su sostegno il 2 dicembre scorso, per chi ha già un’abilitazione), il che ha sottratto a tanti laureati la possibilità di abilitarsi all’insegnamento. Con ciò ignorando o non tenendo conto del fabbisogno di docenti delle scuole non statali. Nota bene: la legge 107 al comma 181 lettera a) punto 8 stabilisce la “previsione che il diploma di specializzazione [all’insegnamento, ndr] […] costituisca il titolo necessario per l’insegnamento delle scuole paritarie”.
Il contributo di giudizio che qui si vuol offrire verte proprio sulla necessaria riflessione sulla formula “formazione iniziale/reclutamento”, ossia proprio su quella barra o slash che assume in modo pericolosamente “scontato” l’intercambiabilità o la coincidenza delle due cose. Si noti addirittura che la legge 107 riconosce quale nesso tra i due momenti la necessità di “renderlo [il sistema di formazione iniziale e di accesso nei ruoli di docente] funzionale alla valorizzazione sociale e culturale della professione”; l’atto di indirizzo Fedeli dichiara subito il proposito di “ridefinire il rapporto funzionale tra formazione iniziale e reclutamento del personale docente”. Questo “spostamento” dell’aggettivo funzionale pare pesantissimo, se si considera che è posto ad incipit. Si tratta della verbalizzazione di quella sbarra (“formazione iniziale/reclutamento”) che in altri termini potrebbe equivalere a: si potrà abilitare un numero di insegnanti pari a quello che lo Stato potrà reclutare. Tale implicito assunto lederebbe un principio di libertà ampiamente riconosciuto dalla nostra Costituzione.
In Italia la professione insegnante è sottomessa, diversamente dalle altre professioni, ad una misura mutuata dalla contrattazione sindacale: ti abiliti se ci sono i posti di lavoro (nello Stato!). Ciò si discosta dalla politica dell’istruzione dei paesi Ue più moderni, come ad esempio la Francia o la Finlandia, dove ci si prepara all’insegnamento attraverso percorsi accademici severi ma accessibili ogni anno accademico e l’assunzione avviene attraverso concorso statale o regionale annualmente bandito nella prima o per assunzione diretta nella seconda. Tale distanza presenta elementi di contraddizione con l’innovazione didattica in una dimensione internazionale posta come priorità 3 nello stesso atto di indirizzo. Ma non solo.
Varrebbe la pena riprendere quel confronto che il ministro Gelmini ebbe con i giovani laureati di “appello giovani” promosso da Francesco Magni, allora a capo del Coordinamento liste per il diritto allo studio, che portò al comunicato stampa Miur del 10 settembre 2011. In quel comunicato si affermava il ragionevole principio di stabilire i posti a bando Tfa non solo sulla base delle previsioni di pensionamento del successivo triennio — calcoli che poi gli stessi sindacati ritennero erronei —, ma anche sulla reale possibilità di offerta formativa delle università.
Esiste una cifra culturale non nuova, così abusata da poter passare, appunto, attraverso la scontatezza e l’implicito di uno “slash”: la considerazione della scuola — e del suo miglioramento (!) — innanzitutto in quanto bagaglio di posti di lavoro e non come agenzia educativa.
Sarebbe utile, invece, partire da un giudizio sui fatti in seno ad un reale confronto con le associazioni professionali che metta a tema la natura vera della scuola e della professione docente in una prospettiva di valorizzazione autentica così come auspicato dalla legge 107. Si spera che il ministro apra a questo confronto.