La paternità è un mistero maschile. Uno scrittore, un artista in generale, sa che la sua principale occupazione è andare a caccia del mistero che si nasconde nelle vite degli uomini, come un maiale il tartufo. Se ci riesce, la sua storia diventa interessante per chiunque, divorabile; i suoi personaggi diventano metafore, cioè porte attraverso cui spiare il misterioso affaccendarsi umano.
Il mistero della paternità è prezioso e vasto, appetibile per una donna come me, per cui nel mio Comunque padri (Marietti, 2011) ho deciso di accerchiarlo, assediarlo con tre storie e tre protagonisti diversi: tre voci di donne che hanno in comune la stessa radice di male e di bene.
La prima attraversa l’ossessione dell’anoressia, la seconda il sesso e la prostituzione, la terza il sacrificio e la vocazione, lande desolate che le fanno approdare allo stesso lido, allo stesso abbraccio amoroso: paterno.
Questa è una trilogia della necessità, del bisogno e del desiderio del cuore dell’uomo: “tutto, in ultima istanza, o è salvo o è perso” (Flannery O’Connor) e scopre come sia necessario un padre capace di entrare nel male e nel peccato per amarci interamente.
Sono donne diverse quelle che parlano, ma tutte vere, le loro vicende si possono leggere in cronaca, la valle che ospita l’ultima storia rimanda a quella della “Salve Regina”, lacrimosa, ma viva, le tradizioni che boccheggiano ormai in questo scorcio di nuovo secolo.
La scrittura si inoltra “nel territorio del diavolo” (ibidem) e si adegua assumendo nel corpo vivo della lingua la forma dell’angoscia attraversata; vischiosa, ipnotica, ossessivante di rime nella prima storia, Affamata, dove la fame, bisogno cogente e primario, parla di un desiderio della carne impossibile da soddisfare.
Questa ragazza è rosa dal desiderio, consumata, non riesce a capire di cosa abbia davvero fame: il cibo non la sazia, non la placa. In lei anche il sesso, usato e abusato come cibo, non è soddisfacente, nutriente. Una donna, per diventare tale, per essere soddisfatta del suo essere femmina, ha bisogno di essere guardata da suo padre, il primo vero uomo, che si sazia della sua esistenza, che la ama per quella che è, non per quello che fa, che dà, che mostra. E lei a un certo punto dirà che ci sono voluti tre padri per compierne uno: quello che le ha dato il seme, quello che le ha dato il nome, quello che le ha dato Dio.
Che le permette di nascere di nuovo: alla nascita fisica deve corrispondere una nascita psichica, questo nei nostri ospedali a volte non è concesso: il figlio è estratto dalla pancia della donna, si trascura del tutto la sua vera “nascita”, la sua “figliolanza”, cioè l’appartenenza a una madre e a un padre, di cui avrà il nome, la stirpe, il sangue.
Nella seconda storia, Le tre di Luca, la prostituta minorenne è straniera, l’italiano è la lingua estranea che prima la violenta e poi la placa: sceglie il vecchio padre per il suono della sua voce. Si gioca tutta sui dialoghi, i personaggi si contrappongono e, nei silenzi, si guardano.
Il sesso, la notte in cui il vecchio paga la prostituta minorenne, è dolce, è bello: è umano. Cioè è fecondo, fertile. Il sesso diventa terreno di vita: il figlio in grembo inatteso, improprio, trova un padre; il padre che accoglie il bambino come suo, chi lo porta come sua figlia. Lui prega “che un peccato così dolce serva a essere perdonato” e accade molto di più, l’orizzonte del racconto si sfonda, si salva.
Serve un padre per fare di un uomo un padre.
Così nella terza storia, il bisogno di parlare di come un uomo può diventare padre rinunciando al sesso, alla paternità fisica, come si possa diventare “padre” anche nei confronti della propria madre: la cosa più difficile da de-scrivere. Ho riempito questa storia di bellezza, la bellezza del mondo, della montagna: questo per ritrovarne la radice e l’impronta, che in fondo è umana, è la forma del cuore umano in cui si riconosce, riconoscente.
“È scivolata molle nel mio cuore la certezza che la bellezza è l’uomo che la vede” dice la madre guardando suo figlio crescere. Il suo ragazzo, educato dal padre cacciatore al fucile e alla libertà, divenuto uomo approda, non senza un lungo travaglio, alla libertà più grande, sostituendo il legno con la croce, arma di gran lunga più potente.
“Comunque padri” è complementare al romanzo “Storie comunque di madri” (Guaraldi 2006) che comprende la trilogia di racconti lunghi Le mani nelle donne, Lividi, Arriverai: mentre lo scrivevo, esplorando la terra della maternità, i parti delle donne, i loro corpi, i loro vuoti, continuavo a imbattermi negli uomini, nei padri e nei compagni, la loro forza e le loro braccia: mi è venuto naturale continuare il cammino, gettarmi appunto in un abbraccio maschile, così saziante.
Io, “fortunata” con quattro figli maschi (permettetemi le virgolette), vedendoli crescere, sfuggirmi di mano e alzarsi sopra la mia testa, ho conosciuto in tutta la sua ampiezza la necessità della paternità: non posso compiere la mia maternità senza un uomo che sia padre, senza l’idea del padre (che si specchia in me). A un certo punto, mi devo ritirare, lasciare fare a lui: altrimenti li perdo, perdo tutto.
Il padre, il pastore, colui che riconduce, al senso, al mondo. A me. La madre mette al mondo, il padre da al mondo il senso. Il padre come senno. La madre come sonno, culla, terra.
In questo secolo l’ultimo bisogno, estremo, è l’intelligenza del padre, l’autonomia e il giudizio, l’autorevole presenza di un padre: quello che si sta cercando di mettere alla porta (un uomo senza autorevolezza è servile), nel tentativo di un asservimento al dominante.
Insomma, se la donna dà la vita, l’uomo dà la libertà.
L’uomo è “un filone di pane” (Affamata) e se rinunciare al cibo corrisponde a rinunciare a un padre (colui che te lo procura e ti insegna a procurartelo), nell’ultima riga dell’ultima pagina la madre apre la bocca e mangia il Pane che suo figlio le porge (notoriamente Eva ha mangiato la mela offerta dalla Serpe).