A Torino, negli ampi spazi dei magazzini della ex Manifattura Tabacchi è conservata una preziosa testimonianza dell’attività scientifica e tecnologica di oltre due secoli: è l’Archivio Scientifico e Tecnologico dell’Università di Torino (ASTUT), che fa parte del sistema museale di ateneo insieme al museo di anatomia umana e al museo di antropologia criminale “C. Lombroso”. Nato nel 1992, è il luogo di ricovero e di studio dei reperti della storia scientifica e didattica dell’università, cercando di conservarli in modo adeguato.
A differenza degli altri due musei citati, l’ASTUT non riesce a gestire una servizio di visite, se non per appuntamento (e ciò avviene frequentemente), per la limitata disponibilità di personale; è però molto attivo nella attività di comunicazione e divulgazione, partecipando a diverse iniziative, anche a livello internazionale, come quella che ha organizzato la scorsa settimana radunando i maggiori esperti mondiali di strumenti scientifici antichi. Si è svolto infatti nella capitale piemontese il XXXIV Scientific Instrument Symposium, del quale a raccontato a ilsussidiario.net la conservatrice dell’ASTUT, Mara Fausone, che ne ha seguito il coordinamento e l’organizzazione.
«È il convegno annuale della SIC, la Scientific Instruments Commission, che è una costola della International Union of the History and Philosophy of Science (IUHPS) dedicata alla promozione delle ricerche sulla storia degli strumenti scientifici e alla conservazione e documentazione delle collezioni di strumenti. L’evento tocca ogni anno una diversa città: l’anno scorso eravamo a Tarsu (Estonia), l’anno prima a Manchester, prima ancora a Rio de Janeiro e a Firenze; il prossimo anno saremo in Turchia. Il convegno è l’occasione principale nella quale ci si ritrova tutti: in questa edizione ci sono stati 120 partecipanti, tra esperti di strumenti scientifici, collezionisti, curatori di musei, storici della scienza».
Si parla di strumenti antichi ma anche relativamente recenti: c’è chi si occupa più che altro della conservazione degli strumenti e quindi si considerano anche strumenti particolari degli ultimi decenni del secolo scorso. «Ad esempio, nell’archivio scientifico tecnologico dell’università di Torino abbiamo oggetti che vanno da fine Settecento fino ai giorni nostri; la nostra filosofia è di raccogliere tutti gli strumenti scientifici usati in università per la ricerca da quando siamo riusciti a recuperarli fino a quelli che poco tempo fa erano nuovi ed ora costituiscono un importante tassello dello sviluppo storico delle tecnologie strumentali».
Al di là dell’aspetto puramente museale, più per addetti ai lavori, quel che può interessare anche un pubblico più vasto è il fatto che studiare questi strumenti più o meno antichi vuol dire anche aprire uno spaccato sul quotidiano della ricerca, capire meglio come lavoravano i ricercatori nella varie epoche. «Tra gli studiosi che fanno riferimento alla SIC c’è chi si occupa non solo del funzionamento degli strumenti ma anche di come venivano realizzati e di chi li realizzava: si cerca di ricostruire quali fossero le tecniche utilizzate, come si sono evolute le modalità di trattamento dei materiali e come avveniva il dialogo tra costruttori e scienziati. Ci sono alcune tipologie di strumenti che, dall’epoca della loro invenzione hanno subito continui e in molti casi enormi trasformazioni: si pensi al microscopio o al telescopio. Per quanto riguarda il trattamento dei materiali, c’è stata una evoluzione continua e alimentata da tradizioni costruttive tipiche di alcune località: basti pensare alla lavorazione del vetro».
Mausone ci riferisce di un interessante intervento presentato al convegno da un gruppo del Fnr, Fondazione Scienza e Tecnica e Opificio delle Pietre Dure che ha studiato le laccature degli ottoni utilizzando tecniche non invasive per analizzare la speciale vernice; analisi di questo tipo spesso sono anche un mezzo per riconoscere gli autori di certi strumenti, perché a seconda del tipo di laccatura si può risalire alla località e all’ambientazione storica della realizzazione e spesso addirittura si può riconoscere uno specifico maestro costruttore.
Viene naturale chiedersi se ci siano strumenti il cui funzionamento non è ancora ben chiarito o dei quali non si riesce a capire l’utilizzo? «Certamente. Ogni museo che si rispetti ha degli oggetti “misteriosi”. E la nostra interlocutrice ci racconta di una simpatica consuetudine di questi convegni: «In ogni edizione del Convegno SIC nell’ultima giornata la città ospitante prende dal suo Museo storico qualche oggetto curioso che non si riesce ancora a decifrare in tutta la loro funzionalità e lo propone che ulteriore strumento da indagare. «Anche qui a Torino, nel nostro archivio ne abbiamo alcuni. Ad esempio, c’è un apparecchiatura vagamente a forma di tavolo che sostiene uno specchio argentato ricoperto da una lastra di ferro con una maniglia che serve per farlo scorrere, coprendo e scoprendo alternatamente lo specchio; vicino c’è un sistema che potrebbe servire per arrotolare della carta, forse per farla passare sullo specchio … Ma l’oggetto non è firmato, non riusciamo a sapere l’epoca della costruzione e neppure chi l’ha utilizzato, come e perché: l’abbiamo trovato in una cantina dell’università mescolato tra apparecchi scientifici e altri oggetti più legati all’attività degli uffici. Non abbiamo nessuna idea, nessuna ipotesi del suo possibile impiego». Ecco quindi che venerdì scorso, quando i partecipanti al convegno sono stati in visita alla manifattura Tabacchi sede dell’archivio, è stata lanciata la sfida «e vedremo se qualche storico o qualche scienziato riuscirà a risolvere l’enigma».
C’è da aggiungere che, accanto all’interesse strettamente scientifico, ricerche di questo tipo hanno una rilevanza più ampia e si intrecciano con altri temi tipici della cultura storica. Al convegno di quest’anno, data anche la ricorrenza, è stata proposto un focus particolare sulla strumentazione in tempo di guerra. La stessa Fausone ha presentato una ricerca sulle maschere antigas della Prima Guerra mondiale. «A Torino conserviamo un prototipo di maschera antigas realizzata dal professore di fisiologia umana Amedeo Herlitzka. Già la settimana dopo l’entrata in guerra dell’Italia, durante una seduta della Reale Accademia di Medicina di Torino uno degli accademici aveva posto il problema di come difendersi dagli attacchi con i gas velenosi. La settimana successiva Herlitzka presentava un modello di maschera, in celluloide, che avrebbe migliorato notevolmente i sistemi di protezione allora usati. In realtà poi quella maschera non è stata adottata per motivi puramente di praticità: il materiale utilizzato la rendeva piuttosto fragile e poco adatta ad essere inserita nell’equipaggiamento dei soldati. Tuttavia le soluzioni tecniche pensate da Herlitza erano interessanti e sono poi servite come base per mettere a punto maschere efficienti e più funzionali».