Prosegue “Mediterraneo, mare di cristallo”, il taccuino del viaggio marittimo-letterario compiuto dall’autore (ndr).
Cefalonia, resurrezione
Un sottile braccio di mare separa Itaca da Cefalonia.
Le due isole sono come sorelle: la più grande protegge la minore dalle orde dei turisti; e continuano a guardarsi, a vicenda. Da Itaca si può contemplare il tramonto, per poco, perché il sole, con le sue luci purpuree e melliflue, si va a nascondere dietro l’Eno, il monte più alto di Cefalonia.
Raggiungo l’altro lato dell’isola con la corriera. Cefalonia mostra un’entroterra caratterizzato da colline verdeggianti e da rarefatti alberi, abbarbicati su creste che si susseguono convulsamente.
Ho tra le mani il romanzo che mi guiderà in questa tappa: Il mandolino del capitano Corelli, il libro che ha reso celebre nel mondo l’autore inglese Louis de Bernieres, che aveva esordito con quattro romanzi ambientati in Sud America, grazie alla sua esperienza di insegnante di inglese in Colombia.
Il romanzo, già best-seller, ha ingigantito la propria risonanza mondiale grazie all’omonimo film con Nicholas Cage. Il resto è uso e consumo dei milioni di spettatori e lettori.
Millenovecentoquarantatre. Cefalonia. Invasione nazifascista della Grecia. Da una delle navi ormeggiate al porto di Argostoli scende anche il capitano Antonio Corelli in compagnia del suo inseparabile mandolino, chiamato affettuosamente Antonia. Quasi un alter ego.
Lo stravagante capitano ama attutire i rumori e rimbombi esiziali della guerra con la musica del suo mandolino e perciò ha organizzato una banda cui partecipano i suoi soldati: cantano, suonano forchette, tambureggiano sugli elmetti, fischiano, spavaldamente sfidando la crudeltà della guerra.
Al capitano Corelli si contrappone il tenente Weber, il buon nazista, che prende terribilmente sul serio il suo compito di soldato del Terzo Reich. È però un sincero amico del comandante italiano e gli salverà la vita nel massacro della divisione Acqui.
Corelli si innamora di Pelagia, la figlia del dottor Iannis, stimatissimo medico dell’isola, presso il quale alloggia in cambio di medicine sempre più scarse per la popolazione locale.
Il dottor Iannis ha viaggiato molto in gioventù, parla diverse lingue e nel tempo libero è dedito alla scrittura di un libro sulla storia di Cefalonia.
Inizia a cadere la penombra della sera, quando il sole sbollisce la sua rabbiosa arsura e i colori si fanno più tenui: gli ultimi bagnanti si accingono ad andar via dalla piscina.
Ritorna il silenzio. Questo è il momento ideale per scendere al mare e vedere i colori con cui il Mediterraneo si adorna prima di sopirsi nel manto della notte stellata: è una luce forte ma discreta.
Ma al mattino seguente, l’aria è fresca e la mia volontà di visitare questa terra emersa dal Mediterraneo è ancora più carica di aspettative.
Vado verso il mare per una viuzza non asfaltata, scoscesa, che tra poco sarà trafficata dai pedoni che risiedono in albergo e dalle automobili dei locali. Sono le sette a Cefalonia. Il sole è appena sorto, il caldo è mitigato e il silenzio spira tra i pini di mare:
“Gli stranieri che sbarcano qui rimangono accecati per giorni. È una luce che sembra essere mediata dall’aria o dalla stratosfera. È completamente vergine, produce un chiarore travolgente, ha una forza e uno splendore eroici. Scopre i colori nel loro stato originale, come se giungesse direttamente dall’immaginazione di Dio giovane, ai tempi in cui credeva ancora che fosse buono. Il verdescuro dei pini è insodabilmente profondo, il mare, dall’alto della scogliera, è straordinario nel suo alternarsi di azzurro, turchese, smeraldo, verde veronese e lapislazzuli. L’occhio di una capra è una pietra viva semipreziosa, tra l’ambra e l’arilide, e i grilli hanno il verde fluorescente dei teneri germogli d’erba dell’Eden. Quando gli occhi si sono abituati all’estrema castità di questa luce, quella di ogni altro luogo, al confronto, appare misera e cupa, serve soltanto per guardare, è una delusione, un difetto. Attraverso l’acqua del mare di Cefalonia, vedere è persino più facile che attraverso l’acqua di qualunque altro luogo; un uomo può galleggiare in superficie, avvistare il lontano fondo marino, e scorgere chiaramente le lugubri razze che, per chissà quali ragioni, sono sempre accompagnate da minuscole sogliole“.
Dal mio albergo c’è una strada che costeggia il mare e un cartello indica che conduce al Sepolcro degli Italiani, ove riposano le ceneri della divisione Acqui.
La Storia è passata anche da qui, e ha avuto le sue vittime sacrificali.
Il proprietario del bar è un ragazzo che studia giurisprudenza a Napoli e durante la stagione turistica lavora nel bar-ristorante di famiglia.
Parliamo un po’ in italiano. Di Napoli, dei turisti, del lavoro, di Cefalonia. Del Capitano Corelli, che ha reso ancor più famosa l’isola nel mondo. Nel bar entrano altri clienti che ordinano alcuni cocktail alcolici di primo mattino, e il ragazzo mi lascia per servirli.
Mi distacco dal bancone con in mano il caffè e scelgo un tavolino vicino alla balaustra del terrazzo da cui, sporgendomi, scorgo i bagnanti più mattinieri, per lo più anziani che cercano la quiete e la mitezza del sole appena sorto.
Mi soffermo con lo sguardo sul movimento ipnotico della risacca del mare e poi sulla collina ricoperta di pini, che docilmente degrada in una spianata artificiale dove si trova il bar e termina con propaggini rocciose nella lunga spiaggia.
Una volta uscito dal bar, la strada è deserta, senza un’anima. In mano tengo il Mandolino.
Incontro una vecchietta con un grande fazzoletto nero in testa.
Mi guarda, mi sorride, bofonchia. Non la capisco.
“Calimera” mi dice.
“Calimera“. Poi qualche altra parola, mentre la lingua, teneramente, si insinua tra i pochi denti superstiti, e ad ogni sigma c’è un sibilo sonoro.
“Tafos ton Italon“.
La vecchietta scuote la testa, si prodiga in altre informazioni che non riesco a comprendere, sorride sdentata, gesticola, probabilmente per indicarmi la strada; capisco solo: “Caloi Italoi“. Ma forse, mentre mi allontano, è la suggestione del Capitano Corelli.
Proseguo verso la mia meta.
La tomba si trova in un luogo di quiete. Una ampia lastra di marmo chiude le spoglie di questi miei connazionali. Due targhe in greco e italiano ricordano l’avvenimento con caratteri incisi nella pietra dove l’ufficialità stona con la naturalità del silenzio del posto. Da lì si scorge uno sprazzo di Mediterraneo che racconta un’altra pagina di Storia, nella storia della vita letteraria di Corelli:
“Era una bella giornata per morire. Poche nuvole soffici oziavano sopra la vetta del monte Eno. Poco lontano, si udì il tintinnare del sonaglio e il belato di un gregge. Si accorse che gli tremavano le gambe e che non poteva impedirlo.
Pensò a Pelagia, ai suoi occhi scuri, all’indole veemente, ai capelli neri (…) Il sergente si avvicinò a Weber. Era un croato, un fanatico più nazista di Goebbels, ma dotato di molto meno fascino. Weber non aveva mai capito come un uomo simile fosse riuscito a entrare nei granatieri. ‘Herr Leutnant‘, disse, ‘tra poco ne arriverrano altri. Non possiamo ritardare’.
‘Va bene’ disse Weber. Chiuse gli occhi e pregò. Era una preghiera senza parole rivolta a un Dio apatico. La carneficina non aveva nulla delle formalità rituale di simili occasioni, come inducono a credere i film e i quadri. Le vittime non furono allineate contro il muro, non furono bendate e costrette a voltarsi verso il plotone. Molti rimasero in ginocchio a pregare, a piangere e a implorare. Alcuni giacevano sull’erba come se fossero già caduti, la strappavano con le mani e scavavano disperati. Alcuni si facevano largo verso il fondo del gruppo. Qualcuno fumava, come se fosse a una festa, e Carlo era sull’attenti accanto a Corelli, lieto di morire, finalmente, e deciso a farlo da soldato. Antonio infilò una mano nella tasca dei pantaloni per dominare il tremito della gamba, si sbottonò la giacca e aspirò a piani polmoni l’aria di Cefalonia, che conteneva il respiro di Pelagia. Sentiva l’odore di eucalipto, di letame di capra e del mare“.
Ma Corelli si salvò grazie al fatto che il suo amico gli aveva fatto scudo con il massiccio corpo, e vi rimase nascosto fino a che i tedeschi non se ne andarono.
La Storia è anche il ricordo del sepolcro. “Nessuno conosce il numero esatto degli italiani che morirono quel giorno sul suolo di Cefalonia. Ne furono massacrati almeno quattromila, forse addirittura novemila. Erano 288mila i chili di carne umana straziata, oppure 648mila? Erano 18.752 i litri di sangue giovane, oppure 42.192? le prove furono distrutte dalle fiamme“.
Mi pare ancora di sentire il crepitio lontano del fuoco che divorava quegli esseri umani; ma sopraggiunge una brezza marina a disperdere l’odore nauseabondo, mentre mi allontano in direzione di Argostoli, mettendo nello zaino il Mandolino e la storia di tanti italiani (secondo l’umanissima testimonianza di Padre Romualdo Fortunato, cappellano della Divisione Aqui), e di tanti altri uomini non italiani, vittime dell’assurdità della guerra. Di qualunque guerra.
(9 – continua)