È riduttivo pensare che il dissenso, in Europa centrale come in URSS, sia stato un fenomeno che ha coinvolto esclusivamente personaggi del mondo culturale e politico “laico”. Ciò impedirebbe di coglierne una delle componenti essenziali, quella religiosa. Anzi spesso sono stati proprio i credenti a corroborare le iniziative del dissenso e a dare significato a esperienze drammatiche quali il carcere o l’esilio, che agli occhi del “mondo” erano l’inizio della fine. Per questo la pubblicazione in Repubblica Ceca delle lettere dal carcere dell’allora dissidente cattolico Vaclav Benda (1946-1999), rappresenta un evento piccolo ma importante per non perdere quella lezione. L’edizione ceca, rispetto all’italiana pubblicata nell’81 da CSEO, ha il pregio di riportare anche le lettere della moglie e quelle inedite sequestrate dalla censura.
Nato l’8 agosto 1946 a Praga, laureato in filosofia e cibernetica teorica, attivo durante la Primavera del ’68, Benda deve rinunciare alla cattedra universitaria per motivi politici. I suoi scritti di carattere filosofico-religioso sono diffusi tramite l’editoria clandestina. Dopo aver sottoscritto l’iniziativa civile Charta77 perde il posto di lavoro ed è costretto ad impiegarsi come fuochista. Dal matrimonio con la matematica Kamila Neubauerova nasceranno 6 figli. «Ero orgogliosa di mio marito – ricorda lei – che stava là nel reparto caldaie, e che per determinati princìpi aveva preferito rinunciare al suo vecchio lavoro». Nel ’78 Benda è tra i fondatori del VONS, il comitato informale che svolge un compito indispensabile: assistere le famiglie di chi è stato condannato ingiustamente. Nel ’79 è lui a finire in carcere per 4 anni per «sovvertimento della repubblica». Dopo la caduta del regime comunista, è leader dei democratici cristiani ed eletto presidente del parlamento cecoslovacco. Muore nel 1999.
Le lettere sono scritte in un linguaggio semplice e immediato, prendono spunto da episodi familiari per parlare di fede e cultura. Da una lettera inedita dell’aprile ’80: «Credo che la salvezza non sia qualcosa di indefinito dopo la morte, ma prenda forma già qui e ora, ed è una componente essenziale, il frutto e il compimento della nostra vita». E altrove: «Quotidianamente riesco a dire “Se così deve essere, sono pronto, poiché Tu, nella Tua infinita misericordia, non provi mai nessuno al di sopra delle sue forze”. Però mi sono reso conto che questa affermazione non è così consolante come a prima vista potrebbe sembrare, poiché l’uomo può avere o ricevere molta forza, maledizione!». «Essere cattolico non significa decisamente essere uno stupido… Sarebbe così se consistesse in una virtù basata su precetti e puritana, ma questo non ha più valore per lo meno dal tempo del Nuovo Testamento». «Per essere veramente felice ho bisogno di un po’ di inquietudine e di una punta di peccato e mi piace di più confidare nella infinità e imperscrutabilità della grazia». Il tono dominante è la serenità: «Mi sono avvicinato allo stato d’animo dell’autentica letizia. E così per il momento sono in uno stato d’animo smanioso e gaio e attendo con curiosità le cose che accadranno». Quante volte vorremmo poter ripetere con lui: «Aspetto con incredibile gioia il mattino»! Non mancano i battibecchi coniugali a distanza. Lui: «È da sempre che ti dico che salare i cibi e far funzionare una penna sono compiti al di sopra delle tue forze!». Lei: «Dato che in vita tua non mi hai mai fatto una foto, non so proprio dove poterne trovare una!».
Intanto l’appartamento al numero 18 di piazza Carlo a Praga era diventato, in sua assenza, un punto di riferimento per molti che, come scrive con ammirazione a Kamila, «guardano in un certo modo i tuoi figli e il lavoro e tutto il resto, e non dubitano di attingere da te gioia e incoraggiamento».
La preoccupazione costante di Vaclav è rivolta all’educazione dei figli, per i quali scrive alcune fiabe, diffuse anche fra i compagni di cella, e li esorta a comportarsi da veri “cavalieri cristiani”: «Come sapete, bambini miei, chi perde la propria vita per il Signore la troverà, e tutte le mie esperienze mi confermano che è proprio così e che è inutile e del tutto sciocco angustiarsi e calcolare se ci costerà caro e se siamo preparati: in fondo, il primo a portare la croce fu uno che passava per caso sulla via del Calvario». «Dio si prende cura di me in una misura e intensità del tutto immeritate, e in modo così evidente che non sono minacciato dal dubbio… . Abbandonandovi nelle Sue mani anche voi ne riceverete sicurezza e protezione, di modo che neppure io dovrò temere per voi».
In una lettera del febbraio 1980 ritroviamo infine un pensiero centrale nell’esperienza del dissenso religioso: «L’uomo non è al mondo per sopravvivere, ma per rendere testimonianza alla Verità».
A tanti anni dall’edizione CSEO, sarebbe bello che qualche editore riproponesse le lettere di questo “cavaliere cristiano”.